Bicocca

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Fausto Melotti, La sequenza, Milano
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lunedì 4 luglio 2016

Pet therapy

Si chiama Tito e abita sulle Alpi, in un paesino a quasi 2000 metri. Ostinatamente
ha prevaricato la mia legittima avversità al mondo animale. Con un salto perentorio
e ovviamente felpato, si è acciambellato sulle mie gambe, senza chiedermi se fossi d'accordo. E non lo ero. Ha provato a dimostrarmi che ho bisogno di arrendermi.
Ma che ne sai, tu gatto? Che ne sai del mio motore acceso, che ne sai tu che
non mi metto mai in off position, che ne sai di me, stupido gatto coccolone?
Dopo mezz'ora di abbandono e di richieste, si è addormentato e io non ho avuto il cuore di farlo scendere. Ho sprofondato le dita nella sua pelliccia di montagna, ho ascoltato il suo respiro e un po', ma poco, ho allineato il mio. Passerà un secolo prima che accetti di nuovo un'imposizione simile. 



martedì 17 maggio 2016

La Callas in ciabatte

Tutto è cominciato una settimana fa. Mi ha telefonato la proprietaria di un appartamento del piano di sopra, affittato a due giovani studentesse di filosofia, chiedendomi informazioni sul sig. Rossi, che vive esattamente sotto le ragazze. Sembra che il mio vicino ascolti musica lirica fino a notte fonda e a volume altissimo, impedendo il riposo alle due assetate di cultura. Onestamente, io non ho mai sentito nulla, tanto meno nottetempo. Cioè, qualche volta, passando sul ballatoio, ammetto di aver sorriso alla voce della Callas, ma roba minima, e di giorno.
Da allora la vicenda procede su strade ansiose. La proprietaria inizia a telefonare a destra e a manca ai vicini, che cadono dalle nuvole. In ascensore fra noi se ne parla, ma il problema di questi tempi è l'assemblea in cui si deciderà il rifacimento della facciata, altro che la lirica del Rossi. Bisogna raccogliere le firme per le deleghe, chissenefrega della Madama Butterfly. 

Quando l'ho conosciuto, vent'anni fa, il Rossi aveva un bel lavoro e la ventiquattrore in mano, chiacchieravamo spesso dei miei fiori e del suo gatto sulla porta di casa, soprattutto nelle calde serate estive. Vabbè, poi è andata così. Esaurimento nervoso (ora si chiama burn out), delusione d'amore, sembra, solitudine. Diciamo che si è lasciato un po' andare. Non esce più, lo incontro raramente. 

L'altro giorno le studentesse del piano di sopra gli hanno appiccicato alla porta un cartello pieno di errori di grammatica con cui lo invitavano a non disturbare il loro sonno. La firma, "Alcuni condomini", era astiosa e vergognosamente anonima.

Il signor Rossi è venuto a mostrarmi l'avvertimento, offeso e scandalizzato. Con molto garbo gli ho consigliato l'uso delle cuffie, ma non mi è parso convinto.
Per farla breve, stanotte la luce della ragione l'ha abbandonato. Psicofarmaci più alcol hanno scatenato la stizza per il torto ricevuto, è salito al piano di sopra per parlare con le "filosofe" e si è messo a gridare troie di merda e le studentesse analfabete hanno chiamato i carabinieri e poi l'hanno portato via e poi e poi...

E poi il signor Rossi, che ha un paio d'anni più di me, è venuto a dirmi che sì, le filosofe hanno chiamato i carabinieri, ma lui non si ricorda bene cos'è successo. E io ho visto tutto la tristezza del mondo nel suo sguardo perso e sporco, nelle sue ciabatte sgangherate, nel suo vuoto d'anima.

E ho visto tutta l'arroganza e la pochezza del mondo schiacciate di corsa nelle valigie delle filosofe, che stamani alle 5 sono scappate via, e nella voce concitata della proprietaria che non si capacita del "muro omertoso" che noi vicini abbiamo eretto intorno a questo uomo "squilibrato, fuori di testa, che insulta e urla".

Sì, perché nessuno di noi, obiettivamente, vorrebbe lasciare il signor Rossi in bocca ai suoi fantasmi, proprio adesso che rifaremo la facciata.
E in questo ho visto tutto il bene del mondo.




martedì 23 febbraio 2016

Separazione sotto zero

Jenny è scappata. Un giorno ha preso una delle sue sante decisioni ed è andata via di casa. Si è presentata dalla sua amica del cuore, esasperata e con poche cose. Alice non ha fatto storie: l'ha accolta, con la generosa solidarietà di una vita intera, ci mancherebbe. Vessazioni, violenze, insulti, dispetti irranciditi da anni di convivenza indesiderata, soprusi. Basta. C'è un limite a tutto. Le due guerriere si sono nascoste nell'unico rifugio antiatomico possibile, quello dell'amicizia. E lì dopo due giorni le hanno stanate i parenti. George, il marito abbandonato, 87 anni portati ancora con dignità, ha steso un elenco irritato di dove poteva essere finita Jenny, con 21 gradi sotto zero, in una Toronto frettolosa. Il matrimonio è finito. Lei verrà accompagnata in una residenza "appropriata", lui troverà una sistemazione, ché tanto il Canada è un paese ricco e civile, non abbandona i vecchi soli. I nipoti dicono che in fondo sarà contento, l'ultima volta Jenny gli ha urlato stizzita "Cazzo! Non sei capace nemmeno di rispondere al telefono!". Un po' di pace, per quel che resta del loro giorno.

lunedì 21 settembre 2015

À la guerre comme à la guerre

Ieri era domenica e al civico 12 c'era aria di festa. La comunità del primo piano lato strada, presumibilmente del Bangladesh, si è raccolta con amici e parenti sul pianerottolo per mangiare, ridere, chiacchierare e soprattutto cantare. I bambini in cortile, molti ed eleganti, si rincorrevano e giocavano chiassosi, fra un tappeto steso, tricicli appesi al muro, biciclette, sedie, bidoni dell'umido. Niente di strano né di inusuale. Vabbè, alle due del pomeriggio, lo ammetto, tutto questo casino era un oltraggio alla quiete pubblica e io stessa, che per ragioni varie avrei voluto schiacciare un pisolino, ho sbuffato. Tutto lì: un vago fastidio, accentuato dal tepore di fine estate che permette ancora di tenere le finestre aperte... dormicchiare con l'arietta sarebbe stato impagabile. 
Invece il nostro condomino del primo piano ha espresso in altro modo la sua contrarietà. Non si tratta esattamente di un galantuomo: Bruno (nome di fantasia), ha in carniere diversi soggiorni nelle patrie galere per spaccio e reati affini; si dice - ma io ci credo -  che abbia fatto qualcosa di brutto alla sua mamma, santa donna; non lavora da anni; è coperto di debiti; è irascibile e spesso in stato di ebbrezza, a esser buoni. Francamente è uno dei motivi per cui vorrei traslocare. Nella migliore delle ipotesi aggredisce i manutentori dell'ascensore che quindi se ne vanno lasciando il lavoro a metà e cinquanta famiglie, per lo più composte da vecchi, sono costrette ad arrampicarsi a piedi per cinque piani. Oppure sbraita nel cuore della notte, presumibilmente contro creditori o pusher, litiga furiosamente con chiunque, fa il gradasso, estorce denaro, racconta balle, non paga le spese del condominio da anni, insulta telefonicamente l'amministratore quasi ogni giorno. Anni fa, un precedente amministratore, minacciato, si è rifiutato di rinnovare il suo incarico. Insomma, una presenza difficile, con cui anch'io ho avuto un diverbio, a suo tempo.
Ora, Bruno vive in modo conflittuale la vicinanza con la comunità multietnica del portone accanto. Si tratta soprattutto di scaramucce dovute al rumore: spesso i ragazzi esagerano, tamburi fino alle tre del mattino, feste, canti, urla, litigi... non è proprio un'oasi di tranquillità. Allora lui ha escogitato un sistema per combattere ad armi pari, si fa per dire: la musica ad alto volume.
"Vediamo chi si stufa prima", mi ha detto tutto orgoglioso, qualche mese fa. "Non li faccio più dormire!": finestre spalancate, radio o cd a tutta gallara, selezione musicale alla bisogna: Laura Pausini, Renato Zero, Mango, Fiorella Mannoia (per fortuna!), Pooh, Tiromancino (!!!), Tiziano Ferro, Zarrillo (eh...) e via così. Rigorosamente cantanti italiani, meglio se voci femminili (ma allora perché non Mia Martini, o Mina, per dire?), roba da Radio LatteMiele o GammaRadio, ma senza interruzioni o speaker; si viaggia sicuramente oltre i 150 decibel, con effetto rimbombo del cortile.
Allora, a parte che così non dorme più nessuno, tanto meno "noi" del 14, e soprattutto non dormo io, a me sembra che "loro" siano rimasti del tutto indifferenti.
La solfa, è proprio il caso di dire, è continuata fino alle 9 di sera, quando forse le energie di disturbati e disturbatori si erano affievolite fino a scomparire, comprese le mie. Ero ormai decisa a scendere al primo piano e dire stancamante, quasi supplicando: "Bruno, ascoltami: se ne fottono di Marco Mengoni, credimi."
La notte si è salvata, dai tamburi e da Mino Reitano.
Fino alla prossima.

sabato 14 marzo 2015

Buddha a domicilio

Al civico 12 è arrivata l'arte. O l'artigianato, diciamo. Una mattina è apparso un Buddha, di creta bianca, appoggiato su un tavolino, a ridosso della ringhiera che custodisce la tromba delle scale. La sera i Buddha erano due. Il giorno dopo tre. Inizialmente ho pensato che il primo fosse lì in deposito, come Il narghilè del dirimpettaio (e il triciclo delle mia amiche marocchine). Poi i Buddha hanno cambiato colore. Rosso e giallo. E poi oro. Finalmente ho visto l'artista, che trascorre ormai tutto il giorno a dipingerli e a modellarne altri, sul tornio. Indossa una tuta protettiva bianca ed è instancabile. Furtivamente ho scattato una foto dalla mio ballatoio, ma ieri mi sono fatta coraggio e sono andata a trovarlo. Gli ho chiesto il permesso di ritrarre le sue opere e lui è entrato in casa e mi ha portato anche un Ganesh, tutto dorato. Lo scultore ha un nome impronunciabile (che non ho neanche capito) e vive insieme ad altri inquilini, tutti dello Sri Lanka. Me ne ha presentati due, con la pretesa di riuscire a comunicare (lui non parla né italiano né inglese), ma non è stato semplice. Hanno tutti un sorriso dolcissimo e i denti smaglianti da pubblicità del dentifricio. Il più anziano mi ha accolto felice con un asciugamano legato intorno alla vita (presumo stesse lavandosi) e mi ha spiegato che l'amico crea e vende Buddha per meditazione (70 euro), a singoli clienti o a negozi. Si è stupito che sapessi il significato di alcune posizioni delle mani del Buddha, mi ha detto "you have great eyes", mi ha mostrato una piccola statuina del Buddha di ottone, davanti alla quale lui medita e ci siamo scambiati dieci minuti di vita, molto a gesti, devo dire. Dieci minuti di grande pace, lì, al terzo piano del "12". Alla fine ci siamo salutati, con un piccolo inchino, a mani giunte. Oggi i Buddha sono sei e Ganesh è tornato dentro, ma io sto meglio.









sabato 14 febbraio 2015

Il mio grand jeté entrelacé

Valentina è bella. Ha dodici anni, gli occhi azzurri, i capelli lunghi e chiari, le unghie mangiucchiate con lo smalto e i brillantini. Ha un problema con i calcoli, tutti i calcoli,
anche i più facili. E anche con le figure geometriche. Ha difficoltà di astrazione, dicono. Fatica anche un po' a leggere, le piace molto di più ascoltare, ma io non cedo. Pretendo che legga a voce alta, anche in inglese, anche il capitolo di scienze sull'apparato circolatorio ed esigo che impari tutti i termini. Valentina ha un sorriso contagioso, un'allegria innata, una curiosità ingenua e travolgente. Passiamo molti pomeriggi insieme, cercando di dare una forma alle radici quadrate, un guizzo ai trapezi e alle loro aree, un colore alle regole delle potenze. La sua pigrizia si declina meticolosamente, un passaggio dopo l'altro delle espressioni inutili e complesse, nulla di ludico nelle approssimazioni a meno di un centesimo ("Ma a cosa servono?", mi chiede... e chi lo sa... io non ho mai approssimato niente al centesimo, nella mia vita). Le piacciono molto gli One Direction, spera di incontrarli, un giorno. Ma la sua vera passione è il ballo. Balla sempre, ci pensa continuamente, mi informa dei suoi progressi, mi mostra le sue punte nuove, mi racconta le coreografie. Quando si stanca o si stufa (cioè quasi sempre, dopo la forca della geometria), arrivano i verbi, in tutte le lingue possibili, a passo di danza. Arabesque: blow, blew, blown. Cambré: Je bois, tu bois, il boit, nous buvons, vous buvez, il boivent. Tendu: che io perdessi, che tu perdessi, che egli perdesse...  Con lei ho imparato a interpretare il mondo osservandolo da prospettive diverse, ho visto molta gioia e una responsabilità inaspettata, una ragazzina serissima e quadrata, che da tre anni gira da sola con i mezzi per la città, con la sua borsetta rosa, che dice che i suoi compagni a volte non sono gentili (!!), che non si lascia mai scappare una parolaccia, mai una cattiveria, solo sogni e desideri e sbuffi matematici. Mi ha conquistato settimana dopo settimana, con la sua determinata svogliatezza, i suoi stupori, la sua inconsapevolezza leggerissima, la sua espressione interrogativa quando per spiegarle le frazioni uso un modo di dire che non conosce (e ne non ne conosce quasi nessuno, Alice in Wonderland). Un giorno mi domanda se abbia mai fumato... sigarette; e canne? Io tentenno e così mi guarda con la sua aria ingenuamente sconcertata. "Ma hai mai fatto qualcosa di interessante?". Le correggo l'aggettivo in "trasgressivo", ma poi anch'io mi incarto. Cosa c'è stato di trasgressivo, nella mia vita?
Mi mette in difficoltà. Come quando  sentenzia, sulle punte:  "Tu spendi poco: hai sempre le stesse scarpe, gli stessi vestiti, gli stessi orecchini. Cosa ti compri per te, per essere felice?". Pas de bourré suivi, tombé, relevé... è questa la felicità, mi spiega. Vero.



Scarpette rosa

martedì 14 ottobre 2014

La nuova vita di Giorgio (4 - fine)

La voce aveva cominciato a girare, nell'istituto, già all'inizio di settembre. Qualche bambino l'aveva saputo e, chissà se con un po' di invidia, se l'era lasciato scappare. Una mattina, incontrandolo in corridoio, gliel'aveva anche chiesto: "Ma cosa ci fai ancora qui? Non sono venuti a prenderti?". 
Infatti i candidati genitori, che da due settimane sono diventati genitori designati, alla fine sono andati a prendere Giorgio. Ci sono voluti altri due viaggi, altre ore in tribunale a farsi torchiare dal giudice più pignolo del mondo, molto sangue freddo, molti soldi, molta perseveranza. E molta, moltissima pazienza.
Una mattina c'è stata la Festa di addio, con gli amici, la maestra, l'educatrice, quella che gli teneva la mano quando lo accompagnava nella "sala colloqui". Riesco a immaginare le lacrime di tutti. Un po' felici, un po' infelici. Ma anche qualche sentimento che non conosco. Cosa avrà provato Giorgio mentre voltava pagina? Avrà guardato negli occhi l'amico del cuore, che nessuno "è venuto a prendere"? E al cuore dell'amico del cuore, chi avrà pensato, quella sera?

Poi la centrifuga della vita ha ingoiato tutto. Le procedure, le attese, i saluti, l'aereo, il grande tappeto su cui Giorgio giocava (togliendosi le scarpe), le regole, la comunità, la lingua che non parlerà più, i ricordi che sfumeranno più o meno volontariamente, mamma, papà, i disegni, il letto nuovo, il Lego nuovo, la giacca nuova, i nonni nuovi, l'ultima occhiata prima di uscire, addio.

Da ieri Giorgio, piantina tenerissima estirpata da un terreno avaro, prova a mettere radici in un futuro diverso. I genitori designati provano la gioia più intensa e più naturale che esista e quando lentamente il moto sussultorio di questo terremoto emotivo si placherà, penseranno alla ricostruzione. Perché, in fondo, questo fanno i genitori veri: crescono piante, costruiscono persone.
La storia finisce qui. Anzi, inizia qui.
  

sabato 6 settembre 2014

Giorgio in attesa (3)

Le procedure sono sempre più complesse: occorre rifare un documento, produrre un'altra copia, aggiornare uno stato, cambiare i nomi di chi firma, tornare al consolato, tornare a farsi analizzare, giudicare, consigliare, rapinare ecc. Ma poi finalmente è tutto pronto e ballano sempre solo quei cinque giorni lì, prendere o lasciare. Subito, in fretta, all'improvviso, partire, prenotare, l'interprete, l'aereo, il viaggio. "La valigia!", mi dice il candidato padre, tutto ansioso. E io, stupida: "Che vuoi che sia, una valigia? Sbatti dentro due magliette...". Eh no. Intanto i giorni saranno tanti (un mese?) e poi, in valigia, ci vanno anche i vestiti di Giorgio. Perché Giorgio, questa volta (e metto tra parentesi uno scaramantico "se tutto va bene, ma andrà bene"), torna con i genitori, non più candidati, ma genitori veri. Insomma, forse davvero ci siamo. Ho chiesto relazioni minime e esclusivamente di genere organizzativo, ogni emozione è rimandata, adesso non si può. 
Intanto Giorgio aspetta. Chissà se in questi mesi ci ha pensato mai, a quei due là. Che gli han detto "torniamo" ma non si sono più visti. Chissà se le foto che gli hanno mandato le ha ricevute o se sono finite in un cassetto; in fondo, meglio non illudere. "La vita è un cimitero di illusioni, Marilla", diceva Anna dai capelli rossi. Che questa volta ci sorprenda?

sabato 23 agosto 2014

Gli occhi di M.me Merrien

M.me Merrien ha gli occhi azzurri, è minuta, una cosina rinsecchita. Oggi ha 87 anni e una volta aveva un marito e tre ragazzi; il figlio è morto a 53 anni di cancro ai polmoni ("il fumo è una droga, credetemi"), e a lui rivolge le sue preghiere sottovoce, di nascosto, la sera (ma io le ho sentite).
Vive da sola, c'è un'infermiera che la mattina la aiuta a fare la toilette, a mettere le calze, e le dà l'abbrivio per cominciare la sua giornata. C'è anche qualcuno che le fa la spesa, e un fisioterapista un paio di volte alla settimana le massaggia la schiena e la accompagna a fare una passeggiata, o su per le scale del primo piano, quando se la sente. Si capisce che è una signora, e non perché non le mancano i mezzi. La sua più bella dote è la dignità. Una dignità sconfinata, incommensurabile, che abbaglia. La sua unica preoccupazione è quella di non disturbare mai.
Mi ha parlato della nuora, che ho visto una volta, una signora molto dolce e affettuosa. Mi dice che per lei è stato difficile, quando è rimasta sola, e che le è molto affezionata. Abita lontano, ma viene spesso a trovarla. La nipote, 30 anni, è Grande Ufficiale di Marina (tutto maiuscolo). Quando la nomina, le brillano gli occhi di orgoglio, dev'essere il suo gioiello, ciò che le rimane di suo figlio, una ragazza straordinaria, una carriera travolgente: al momento è imbarcata... ma appena avrà una licenza verrà a trovarla. In famiglia sono tutti ingegneri o ufficiali di Marina. Abbiamo chiacchierato tanto, nei giorni in cui siamo state insieme. Io seguivo un po' a fatica il suo eloquio ricercato e velocissimo, con un forte accento bretone. Mi ha raccontato molti momenti importanti della sua vita, quasi tutti belli. E su quelli brutti ha abbassato lo sguardo, con un filo di voce, dicendomi solo "è stata dura". Mi ha detto mille volte che avevo dei bei capelli e che anche lei un tempo aveva una chioma da invidiare. Le pesa questa piccola rinuncia alla vanità, le pesa come un macigno, ma si capisce che è un sipario per nascondere il dolore vero. Abbiamo parlato del futuro, di cosa l'aspetta; immagina di avere ancora una vita lunghissima e pensa a come riorganizzarla. Spera di "non perdere la testa, perché è terribile
": io l'ho confortata, sostenendo che il peggio sarebbe per gli altri, che non potrebbero più parlare con lei, persona così deliziosa. 
Quando ci siamo salutate, ho avuto invece l'impressione che il suo cuore fosse sempre più stanco, la sua voce più flebile e che il futuro... mah...  L'ho ringraziata per tutto l'esercizio del francese cui mi aveva costretto e che mi era stato così utile, date le circostanze. Le ho stretto le mani fra le mie è le ho detto "Madame Merrien, siate fiduciosa, andrà tutto bene", e i suoi occhi azzurrissimi mi hanno detto tutto il resto.

P.S.: se vi capita un guaio grande, e finite in ospedale, scegliete Quimper, in Bretagna.
Se sapete il francese bene, è meglio. E poi, lassù, così a ovest, il sole in estate tramonta alle dieci di sera, la morte sembra sempre un po' più lontana.

mercoledì 18 giugno 2014

Le mie amiche e il temporale

Sono le otto di sera. Tuona forte, lampi giganteschi e spezzettati incrinano il cielo già scuro, già squassato dal frastuono. Scoppia il solito temporale, quello incazzato che mi spaventa sin da quando ero piccola, quello che mi tiene sveglia se sceglie la notte per arrivare, quello che mi fa scappare via dal mare, che mi toglie il respiro, che mi manda il cuore in gola. 
Mi affaccio sulla porta di casa, per affrontarlo da adulta, le gocce violente grandi come tazzine (mi sembra), un torrente d'acqua verticale che sbatte sui tetti, sui ballatoi. 
Ed eccole lì, le mie piccole amiche della ringhiera di fronte, con la nuova arrivata di quest'anno in braccio alla maggiore, come sempre. Sono sei, ormai. Il fagotto dell'anno scorso ora cammina e urla sul balcone tutto il giorno. Sono in fila, una accanto all'altra, in ordine di altezza, con le braccia alzate, il viso offerto alla pioggia scrosciante, i vestiti senza maniche bagnati; cantano felici, bevono l'acqua che invade la loro gioia, ridono, fradicie, con i capelli appiccicati al viso. Mi vedono, mi salutano: "Ciao!", e poi con la mano tutte, ciao, ciao... "Hai visto che bello?". La loro allegria rimette in ordine tutto, per due minuti; mi sbraccio anch'io, sorrido, ciao ragazze, sì, che bello... Il mio terrore, anche quello del temporale, si scioglie nei colori delle loro magliette aderenti e inzuppate, nei loro occhi scuri, nel grido pazzo ed entusiasta della penultima signorina, che grida sempre, ma stavolta di più. La mia inquietudine, che in questi giorni si salva nella rabbia, ora si bagna e gocciola via. Mentre anch'io provo a godermi lo spettacolo, sull'uscio al terzo piano di fronte appare il giovane papà. Poche parole, affettuose; immagino un "venite dentro, vi bagnate tutte!", e le bambine ubbidiscono. L'ultima mano sbuca per me, sotto la pioggia. Mi ritorna il batticuore.

martedì 18 marzo 2014

Giorgio forse spera (2)

Ho visto le foto, è tutto vero. Giorgio ha veramente un'aria sveglia, sorride in braccio al candidato padre, ma dentro cova l'energia allegra e contagiosa della teppa: è proprio immediato, ti vien voglia di dirgli "Guarda che ti tengo d'occhio!" e poi scoppiare a ridere, fargli uno scherzo, farsi rincorrere. 
Anche se è piccolo mi sa tanto che i concetti di abbandono e di separazione gli siano molto chiari. Quindi speriamo che abbia creduto alla promessa dei candidati genitori di tornare a prenderselo. Nel frattempo li ha salutati educatamente, come gli hanno insegnato, con un cortese "Tornate presto" riferito con rispetto dall'interprete. Si è tenuto le macchinine e l'orso di pezza, chiedendosi probabilmente se ha sognato o è successo veramente, se davvero quei due lì un giorno si faranno vivi ancora, così strani, lei con un nome impronunciabile, lui che è capace di disegnare gli aerei e un sacco di altre cose, manco a farlo apposta.
 
Ora la macchina procede a marce basse, documenti, firme, giudici, sentenza, all'insaputa di Giorgio, che speriamo sfogli con un accenno di illusione le fotografie lasciate da quei due marziani emozionati che hanno giocato sul tappeto insieme a lui e a cui manca ancora il respiro quando pensano al loro primo sguardo.

martedì 11 marzo 2014

Giorgio che disegna bene (1)

Questa storia è difficile da scrivere. Scompagina la mia emotività, esige equilibrio e, se possibile, anche un po' di stile. Ho chiesto il permesso di raccontarla ai diretti interessati, promettendo totale anonimato. L'idea è quella di metterla a fuoco un po' alla volta, a puntate, perché è una storia che sta accadendo e quindi so come è iniziata, ma non so come continuerà. So come vorrei che continuasse, questo sì. È una storia probabilmente uguale a mille altre, ma a me che la seguo quasi da vicino, pare molto bella. Verrò anche meno al principio di non parlare di genitori e figli, perché in realtà è una storia di relazioni, ovvero di relazioni fra genitori e figli. È la storia di Giorgio (nome di fantasia, ovviamente), che vive dall'altra parte del mondo ed è piccolo. Abbastanza piccolo, ma non piccolissimo. 

I suoi candidati genitori, come migliaia di altri candidati genitori, hanno scalato l'Everest dell'adozione, sono stati valutati, analizzati, spremuti, incantati, incoraggiati, scoraggiati, consigliati (da tutti, anche da me... che assurdità! A volte non si sa dove fermarsi!), sostenuti, illusi, delusi, spennati, derisi, ammirati. Poi, all'improvviso, hanno avuto cinque giorni di tempo, e non nove mesi, per prepararsi a guardare in faccia Giorgio. Giorgio bellissimo, Giorgio che li aspetta, Giorgio che disegna bene. 
Grazie alla tecnologia canaglia, oggi è arrivata dall'altra parte del mondo, insperata, la notizia che i candidati genitori e Giorgio "si sono incontrati". Inizia così, quasi sempre, ogni storia, ogni relazione. Sguardi che si incontrano.

giovedì 6 febbraio 2014

La metamorfosi

Premesso che su questo argomento ho i nervi scoperti (e non solo su questo, per la verità), sottopongo le mie riflessioni al solito lettore pietoso che si avventura a leggere questo blog.

Quando si perde il lavoro si perde anche una parte consistente di sé? Domanda retorica: sì.

Eppure quello che si può definire "scivolamento professionale" non dovrebbe coincidere con lo "scivolamento personale". Mi sforzo di credere che anche se un giorno ci si sveglia senza più né sedia né ruolo, in teoria si resta la persona di prima, con le stesse capacità e le stesse idee. Almeno per un periodo.

La realtà invece mi è testimone del contrario: senza lavoro sei una merda.
Ti inventi prospettive inesistenti, ti disperi, aspetti. Nella migliore delle ipotesi accetti il ripiego. Fino a qualche tempo fa, questo non accadeva immediatamente: si vagliavano tutte le ipotesi. Ora di ipotesi non ce ne sono più, quindi si anela direttamente alla sopravvivenza lavorativa, pur di non trasformarsi velocemente in una merda. Più passa il tempo e più questa merda collassa su se stessa.
 

Se si è fortunati, ci si ricicla. Da ingegnere informatico superspecializzato a semplice consulente di software gestionale per le banche (a contratto);
da caporedattore a traduttore freelance di fumetti satirici (previa gara di traduzione e con malcontento della categoria dei traduttori); da commessa o impiegata a babysitter (in nero).

Se si è mediamente fortunati, si "va in mobilità". Cioè, se lavori in un'azienda di una certa dimensione e con una rapresentanza sindacale decente, ti viene offerta la vantaggiosa opportunità di accettare un incentivo all'esodo volontario e ricevere un contributo dello Stato per enne mesi (dipende dall'età e dall'anzianità di servizio), in attesa di trovare un altro lavoro. In questo caso, mi scrive il mio amico ingegnere elettronico lasciato a casa senza neanche un plissé, "l'INPS paga contributi previdenziali e una indennità mensile, e in cambio può succedere di essere destinati a lavorare temporaneamente presso enti pubblici, per mansioni che siano il più possibile simili alla propria ultima esperienza di lavoro". Ecco. A lui l'hanno chiamato, per una possibilità di LSU ("Lavoro Socialmente Utile"). La convocazione è arrivata da una scuola media statale. Bene, si è detto il mio amico. Ovvio che non avrà a che fare con l'insegnamento (ci mancherebbe! E i precari? Quanto si incazzerebbero? Il doppio dei traduttori di fumetti satirici!!). Però magari sarò utile alla comunità, che a sua volta contribuisce ad alleviare il mio stato di disoccupato dopo 25 anni di lavoro altamente qualificato. Potrò mettere le mie capacità al servizio di un'istituzione che sicuramente avrà bisogno di una mano, magari con un progetto di informatizzazione o con l'ottimizzazione delle risorse multimediali... chissà!

Il mio amico si sbagliava. Il colloquio era per un posto di ... bidello! Ovviamente qualcuno di più qualificato - seppur in mobilità - gli è passato davanti. E io che già lo immaginavo a migliorare il sofware della biblioteca scolastica, oppure a imbastire piccoli corsi di informatica o scienze applicate...  Nel solco della tradizione italiana non gli hanno nemmeno "fatto sapere" più nulla: ha evinto da sé che la proposta era morta lì. Continua a mandare curricula in giro, consapevole che la sua esperienza è poco spendibile e che l'età è un ostacolo. E la collettività ha perso un'occasione: lui è veramente bravo e poteva davvero restituire, almeno in parte, l'aiuto ricevuto. In altri Paesi funziona così, e funziona benissimo. E non avanzi neanche il tempo, mentre cerchi un lavoro, di trasformarti in una merda.

Se invece si è sfortunati, è l'abisso. Dolore, fatica, senso di fallimento, vuoto esistenziale, nessun futuro da immaginare. Tenore di vita stravolto, coda al Centro per l'Impiego, i genitori che ti pagano il dentista, a volte ti riprendono addirittura in casa, te e la tua famiglia, in quattro, nella tua vecchia cameretta.

E quindi?
 

Quindi, se non hai il carattere del mio amico, che non si arrende mai ed è una persona fiduciosa ed equilibrata, dopo un po' arriva la metamorfosi: ti senti una merda anche se non lo sei ancora diventato, e poi, piano piano, lo diventi per davvero.
 

Presto si sviluppa anche una certa incomunicabilità, fra chi lavora e chi non lavora. Una strana sensazione di appartenere a due mondi diversi: come chi è malato e chi no, chi ha il figlio disabile e chi ha il figlio sano, chi "ci è passato" e chi no, chi è "dentro" e chi è "fuori". Ecco la parte di noi che perdiamo: ogni relazione si snatura, ogni discorso è mediato, ogni pensiero è un sottinteso. Ogni energia è volta a saldare gli insoluti. Il prezzo è un'involuzione senza fine, crudele, avulsa da tutto. 
Non so cosa possa salvarci dalla débâcle: un libro? Una giornata di sole? Il confronto con chi sta peggio? La risata di un'amica? Tutto, probabilmente. E, soprattutto, un altro lavoro. 

giovedì 23 gennaio 2014

Di vecchiaia si muore

Mio padre ha 80 anni e rotti, è ancora un bell'omone, con tanti capelli, e litighiamo veramente tanto. La verità è che non mi rassegno, non accetto che si rincoglionisca così, che si arrenda. 
Non accetto che non si interessi più di politica ("tanto ormai non mi riguarda più... facciano quello che vogliono, cazzi tuoi che resti"), non accetto che si compri i cibi pronti, lui che sognava di aprire un ristorante con la sua amica Gianna. Non accetto che non legga più i libri, ma sfogli solo i titoli del giornale, perché lo annoia tutto e in questo mondo non si riconosce, e la tecnologia e tutto il resto. Non accetto che non usi più la macchina fotografica perché non vuole scoprire le foto rimaste lì da Natale di cinque anni fa, non accetto che non si ricordi di quella volta che siamo andati in vacanza io e lui da soli in Costa Azzurra, non accetto che mi chieda quattro volte di seguito se deve pagare l'Imu e non si ricordi che gliel'ho già pagata io, non accetto che mi parli sempre della sua infanzia e di quei posti lassù in montagna, che io neanche conosco, e della Resistenza, e dei tedeschi e del partigiano morto che ha trovato nel bosco, e di quell'altro che invece l'avevano ammazzato i partigiani perché "lo sapevano tutti, perché...". 
Non accetto che zoppichi, qualche volta, e non accetto che vada a letto troppo presto e che poi si svegli alle tre di notte e non dorma più, non accetto che prenda le multe perché non ha visto il rosso, che si faccia raggirare dai ladri nel parcheggio del supermercato, che mi ripeta sempre le stesse cose, che non si interessi di quello che faccio, che viva di ricordi sbiaditi e corrotti e ricostruiti a modo suo. Che mi dica che i vecchi sono maledetti e che bisognerebbe ammazzarli tutti. Che mi parli sempre di mia madre e che mi dica che la sogna. Che sparpargli sul tavolo tutte le cartellette piene di documenti sulla sua salute e le lasci lì, da anni, suddivise per patologia e poi non trova mai quella giusta che gli serve. Non accetto che mi ricordi che vuol morire in fretta e senza soffrire, meglio se presto, così gli rispondo che non dipende da me e nemmeno da lui, e che anche per Abbado non è stato facile (lo so, lo so, era del '33 anche lui...). 
Non accetto che mi guardi con i suoi occhi grigi e un po' persi, che non metta la sciarpa quando esce e fa freddo, che strapazzi la frizione della macchina. Non accetto che sopravviva soltanto. Non accetto che invecchi. Non accetto che vada via, piano piano, un pezzo per volta.


giovedì 24 ottobre 2013

Bitmap # Proiezioni/01

Come ci perpeciscono gli altri?  E, soprattutto, quanto di intenzionale
c'è nell'immagine che proiettiamo di noi? Sembriamo soltanto o siamo davvero? Che cosa ne sanno gli altri di noi? O che cosa lasciamo che sappiano? E la visione è volutamente distorta in quanto speculare?

 



sabato 28 settembre 2013

Dove non si tocca

Non è solo con l'inoltrarsi negli anni che ci si accorge che il proprio mondo si dissolve. Mi chiedo a volte come potrei sopravvivere alle persone
che mi hanno accompagnato; eppure succede, eppure è successo.  

In un secondo si finisce dove non si tocca. 
E impari in qualche modo a stare a galla: a volte si beve, manca il respiro.
Poi ci si assesta e la corrente fa il resto.

Quanto miseri mi appaiono i sostenitori del pregiudicato che urlano e dileggiano mentre un signore anzianissimo e ostinato cerca, ricordandoli, di ridare vita ai suoi "affetti radicati". Anche da vecchi l'assenza fa male.

martedì 3 settembre 2013

Vi dichiaro marito e moglie

Inaspettatamente riesco a non perdermi la mostra di Gianni Berengo Gardin (Milano, Palazzo Reale, fino all'8 settembre). Il pomeriggio è ancora estivo e il cielo è quello bello blu di Lombardia, solo quando vuole. Mi rubo anch'io una foto del candore del Duomo; mi tenta sempre, ne ho decine di foto così, in fondo tutte uguali... Ora è più facile di una volta: cellulare, clic... ce l'ho.

Al pianterreno del Palazzo, in una sala in penombra e di cui si intravvede un arazzo alla parete, si celebrano le nozze civili. Fuori, una gran festa. La sposa è musulmana, in bianco ricamato ma con l'hijab di raso che le avvolge anche un immaginabile chignon, una cupola lucente che corona due occhi profondi, truccati in modo appariscente, ormai certi di parlare al futuro. La sorella è alta, coperta dalla testa ai piedi da un abito blu, bianco e oro; chiacchiera con le amiche, tra cui una giovane ragazza italianissima, accaldata e con un bambino addormentato nel marsupio, e con le damigelle vestite uguali, a dire il vero alquanto scollacciate e in bilico su tacchi altissimi. Tutti ridono, gli sposi salgono su un'auto scura, si concorda chi va con chi. 
Bello.

Salgo al primo piano, nel mio mondo, a Milano negli anni Settanta, la rimessa dei tram, i vigili, una certa malinconia negli sguardi, la stazione Centrale, le valigie con lo spago degli emigranti. Me le ricordo. C'è anche Dario Fo. E Castiglioni, con Alessi e la sua teiera. E poi Venezia con la neve, e il sorriso di una ragazza che vola in altalena e mi attraversa. Ci sono i manicomi cancellati da Basaglia, l'umanità venuta male, insultata dallo stato; e infine la posa seria di due bambini in un campo rom, negli anni Ottanta. 
Toccante.

Ripasso davanti alla sala dei matrimoni: esce fra gli applausi una coppia fresca di contratto. Lei è davvero felice, le danza intorno un signore un po' strano, con il codino, claudicante, la solletica a voce alta, la mette un po' a disagio. Per un attimo i nostri sguardi si incrociano, le sorrido, sincera. E lei ricambia, come sorpresa e contenta di vedermi (dubbio: ci conosciamo?). Lo sposo sembra invece che non si orienti, perso in un contesto che non gli appartiene, circondato dai pochissimi invitati. Lui non sorride. Foto di gruppo (piccolo). 
Triste.

Sposto questo velo con un caffè e poi torno al bagliore che rimbalza sul marmo della mia solita, amata, stupenda cattedrale. Mi riconcilio con questa città e i suoi contrasti. C'è dentro proprio un po' di tutto.





lunedì 29 luglio 2013

Salto nel tempo

Due ragazzine nel parco cittadino, sotto un temporale estivo, completamente fradicie, i capelli lunghi e gocciolanti sul viso, le canottiere appiccicate,
i pantaloncini da strizzare. Urlano, cantano, saltano, ridono, corrono come matte sotto la pioggia che appanna tutto. Sono tornate piccolissime. E sono immensamente felici, insieme, come una volta. Esce il sole.

mercoledì 10 luglio 2013

Hören Sie und ergänzen Sie (Ascolti e completi)

Questo post è dedicato a una persona. Nella vita capita di camminare accanto a qualcuno per un tratto di strada. Piccole passeggiatine, eh? Niente di straordinario, nella specie un paio di volte a settimana. Ci accomuna un interesse, un lavoro, una vacanza, oppure il caso. Il caldo in estate, il gelo in inverno, il buio quasi sempre: insieme al corso di tedesco, portato a termine con pervicacia. In mezzo, la quotidianità, le elezioni, il papa, le preoccupazioni, il lavoro, la tv. Qualche risatina isterica, da scolaretti impreparati, sguardi svogliati, compiti copiati, pettegolezzi, libri letti, mail piene di agitazione per l'esame di fine anno, i trucchi per passarlo, la stanchezza, qualche battutina impietosa sul vicino di banco che resta indietro. 
L'afa di questi giorni non ci ha fermato: l'anno prossimo, si ricomincia a camminare, ci siamo iscritti di nuovo, livello avanzato, roba da grandi. Se ce l'ho fatta, lo devo al mio "compagno di tedesco". Lui sì che ascolta (e ricorda), e non solo il tedesco. E pensare che diciamo sempre che "l'ascolto non è il nostro forte"... 
Schöne Ferien mein Freund.