Bicocca

Bicocca
Fausto Melotti, La sequenza, Milano

domenica 26 novembre 2017

Stai con la gente tua

Chi ha amato Paolo Volponi non può non lasciarsi av-volgere e tra-volgere dal flusso di memoria e riflessioni di Giorgio Falco, in "Ipotesi di una sconfitta". Forse tra i libri più belli che ho letto nella maturità, un viaggio dentro se stessi e nelle interiora di un Paese decomposto dalle radici, quarant'anni di storia del lavoro e di crescita o stallo individuali, di resilienza, di fatica, di tentativi, di sfinimento e forse, infine, di resa. Se non fosse lui, sarei io. Lo scrittore alla fine diventa scrittore, sopravvissuto (per ora?) al sistema che non lo riconosce e lo espelle come corpo alieno, nonostante la pervicacia nella sopravvivenza. "Stai con la gente tua", diceva Frank McCourt nelle "Ceneri di Angela", e quanto è vero, maledizione. Resta lì, giù la testa, con il tacco violento della condizione sociale che preme sulla tempia. Falco dà sostanza alla parola impronunciabile perché ormai assurta ad altro: umiliazione. La scrittura è magnifica, come l'analisi del mondo del lavoro, metafora della vita intera già scritta, o lo sguardo amaro e dolorosamente cinico, quasi umoristico, che pervade ogni pagina. Non è un libro per giovani. E' l'ipotesi struggente e vera di una sconfitta.

lunedì 13 novembre 2017

Belle persone - Fadwa (?)

Linea 2 della metropolitana. Sale alla fermata La Chapelle. Occhi verdissimi, brillano sull'ovale disegnato dalle rughe e avvolto nell'hijab beige. Ha con sé il solito carrello della spesa, da cui sbucano i gambi di sedano. Di fronte a lei siede un'altra signora, più dimessa. Fadwa le parla in arabo (credo), la signora, un po' sdentata, le risponde in un francese arabeggiante. Io sorrido a entrambe, ma soprattutto a Fadwa, che mi ha rapito con il suo sguardo dolce e senza più passato. Scendo a Nation. Gli occhi verdi e vecchi di Fadwa mi cercano, vorrei sedermi accanto a lei e farmi raccontare una ricetta o com'è arrivata qui o dei suoi figli o di quello che vuole lei. Invece mi circonda stretta con un "Bon courage, madame!", sorridendo allegra. "A vous, madame! Au revoir...", ma che gioia!    

sabato 11 novembre 2017

Bitmap # Background/03

Novembre. Dieci minuti qui, al tramonto. E poi può succedermi tutto.

Paris, Place des Vosges

mercoledì 11 ottobre 2017

Qui voit Ouessant...

...voit son sang. 

Chi vede (l'isola di) Ouessant vede il suo sangue.

Perché il mare tempestoso la avvolge e la sfida, con il suo urlo nero.  

Ouessant è la mia fissazione. L'isola spazzata dal vento, esposta, sola, tenace, lontana. Irraggiungibile in inverno, poco raggiungibile in estate. Quella che fa la preziosa. Che ci vuole il bel tempo, che ci vuole il mare calmo, che ci vuole il giorno giusto, che ci vuole l'intenzione, che ci vuole pazienza. Che desidero da sempre e non ce l'ho mai. La più a ovest. 

E finalmente due ore di traghetto, e poi lei è lì, distesa, bellissima, con il suo cielo a tratti imbronciato, a tratti dello stesso blu dell'oceano. L'ho accarezzata tutta, come una tartaruga che dorme, come i desideri realizzati, come l'anima calma. 
È il posto più bello del mondo. No, forse l'ho già detto di molti altri posti. Invece sì, è il posto più bello del mondo. Va bene, è uno dei posti più belli del mondo.

Ouessant è silenziosa. Fra poco le bufere atlantiche la zittiranno davvero e i suoi 800 abitanti ascolteranno solo il fragore delle onde e del vento, come i suoi tanti fari. Un rantolo terrificante accompagnerà i suoi marinai, che escono ogni giorno in quel grigio cupo e violento, che ti fa sentire un niente. E quasi sempre ti chiedi se mai tornerai.

Ho dato retta per un giorno al desiderio assurdo di vivere qui, al riparo dalla ragione. Un giorno di gioia assoluta, io ben distante da me stessa e lei, così vivificante. Aria da respirare. Vorrei vedere il mio sangue, per davvero.






 







martedì 3 ottobre 2017

Belle persone - Marco

Se fossi più costante, mi piacerebbe istituire una rubrica "Belle persone".
Inizio con questa.
Marco, giovane barista. Mi serve il caffè in un tristissimo bar di un tristissimo posto dove sono quasi costretta ad andare, durante le frequenti visite a una persona a me vicina. Nel tempo, in quel recinto di sofferenza sono successi molti episodi spiacevoli e non sempre il mio sarcasmo mi ha tenuta in piedi. Qualche volta ordinare il caffè lungo con il latte freddo a parte è stato un gesto eroico, collaterale al danno.
Marco mi ha sorriso sempre, ha giocato con me quand'ero cinica, ha taciuto quando non avevo voglia di scherzare, ha capito la mia pena, mi ha dato il vassoio quando era utile, mi ha servito al tavolo quando ero carica di borse e di pensieri.
Una mattina d'estate, poi, sfortunatamente ho proprio passato il segno. Quando il dolore trabocca, non c'è proprio niente da fare. E quella mattina d'estate, il caffè non me l'ha fatto pagare.

Ieri è di nuovo autunno. Non fa più caldo. Il caffè me l'ha preparato Mary, donna bellissima, egiziana, con figlia bellissima, croupier. Quando è arrivato Marco io ero ormai sulla porta, mi ha sorriso come al solito, e mi ha mandato un bacio con la mano, dal bancone. Posso ricominciare. 



domenica 1 ottobre 2017

L'Ovest di Macron

Quasi sei mesi di silenzio: vorranno pure dire qualcosa!
La ragione è principalmente una: il profluvio di condivisione altrui mi dissuade dal partecipare alla colata di pensieri e ri-postaggi e comunicazioni varie.
Se il lettore è infastidito quanto me da questa cornucopia di robe inutili, spiagge, figli, battute, aperitivi, battaglie umanitarie, articoli di giornale ripubblicati decine di volte, insulti, megafoni, opinioni su tutto lo scibile umano, dagli animali domestici ai vaccini, che voglia avrà di leggersi le mie quattro cazzate pensate e ripensate, possibilmente purgate dalla noia e dalla banalità (che comunque...). 
Pazienza, ci riprovo.
Un blog uno se lo va a cercare, in fondo. Ecco, ve la siete cercata.

Piccola premessa: quest'estate volevo sanare una ferita. No, volevo chiudere un cerchio. No, volevo vendicarmi. Tre anni fa il mio giretto era stato interrotto da una sgradevole vicenda personale e non l'avevo digerita, 'sta cosa. Quindi sono andata là dove avevo abbandonato i miei pensieri. Anzi, ho voluto guardare un'altra Bretagna, quella ancora tenacemente comunista, ora impoverita e che ha dovuto ingoiare Macron, pur odiandolo. Niente mete turistiche, o poche, e molto territorio, molta natura, molte coste, molti campi coltivati.

Ho cercato gli sguardi e la rabbia di queste persone testardamente legate alle tradizioni, al mare, al vento. Anime durissime, abituate alla fatica e alle sfide delle tempeste. Capelli rossi, fisico imponente, sorrisi asciutti, cerate gialle. Pescato. L'odore forte di alghe e di vacche. Melenchon e il bolscevita Hamon (bretone, il padre l'avrebbe voluto camallo al porto) qui sono ancora gli unici che difendono la pesca d'altura dalle grandi multinazionali e la terra dei contadini dalla devastante urbanizzazione; sono gli ultimi bastioni contro la costruzione dell'aeroporto di Nantes e lo sfruttamento di ciò che resta dei pescatori di professione. Li hanno votati i giovani, in gran parte, quelli che ancora sperano. Resiste e forse rinasce qui la sinistra francese, in questa terra protesa e stanca.  

Pesca d'alghe al largo di Roskoff

Insegna dell'Associazione per il salvataggio di vite umane in mare




sabato 22 aprile 2017

Atene # 04 - La soluzione di Euterpe

Se c'è una cosa che mi manca nella vita (oltre a parlare russo, volare, una casa a Varigotti, una madre vera e infinite altre, molte delle quali oramai impossibili), è suonare. Conoscere la musica, comprenderla, eseguirla. Lo dico con vero rammarico, perché nel tempo ho capito che è una delle pochissime soluzioni della vita, panacea di molti mali, estasi, ricovero, gloria, perfezione, essenza, principio di vita e/o di sopravvivenza). Solo la musica ha salvato qualcuno dai campi di concentramento, solo la musica ha reso tollerabile la follia di molti, solo la musica ha unito il mondo. La musa Euterpe accorre in aiuto di chi sembra non farcela più.
Quindi non c'è da stupirsi se un giovane ateniese, sulle rocce della collina di Filopappo, affacciato verso la sterminata sequenza di cubetti di cemento che si intestardiscono contro le avversità, suona il violino per i suoi amici. Mi sistemo alle sue spalle e tutto si acquieta, non me ne andrei mai, anche se il sole si abbassa, affaticato.



E il giorno dopo piango, senza riuscire a fermarmi, mentre una coppia intona vecchie ballate greche. Lei ha una voce indimenticabile, lui suona la chitarra, le fa il controcanto, la guarda, non si parlano ma si parlano dentro. Sono seduta su una panchina poco distante, a cui manca un'asse. Una canzone, poi un'altra e poi un'altra ancora e un'altra, è domenica mattina, alle pendici dell'Areopago, non si vede nessun altro, la stradina, in salita sotto gli ulivi, è silenziosa e deserta, illuminata dal sole fresco di primavera. E piango, piango, non riesco a fermarmi, un pianto per nulla disperato, che ha solo divelto il mio recinto emotivo. Resterei lì per sempre.




E poi lungo Apostolou Pavlou, che costeggia l'Agorà antica, mi lascio trascinare dalla passione di un altro ragazzo, che suona rapito "Smoke on the water" dei Deep Purple, la chitarra a tracolla. Lui è proprio in un altro posto. E in pochi minuti lo seguo, è il giorno di Natale, indossa una camicia a scacchi, non vede nemmeno chi gli molla i 20 centesimi nella custodia. Niente lacrime, stavolta. Gioia, gioia pura, canto anch'io, suona benissimo. Mi sento benissimo. Euterpe mi cinge. E mi salva.


lunedì 17 aprile 2017

Atene # 03 - Il varco all'imprevedibile

Se abitassi ad Atene, comprerei un biglietto annuale per visitare l'Acropoli (cumulativo...). Il mio ateismo si scontra violentemente con la limpida e poliedrica religiosità del IV secolo (e non solo), l'umana rappresentazione del soprannaturale, la dignità che pervade ogni colonna, ogni traccia scultorea, ogni frammento di ciò che resta eternamente una pietra di bellezza.


Tempio di Atena Nike

L'arte non c'entra: l'ho capito lassù ma anche di sotto. Il cielo, con il suo azzurro profondo e mediterraneo, accende la perfezione, la deità si nasconde nel controluce, nell'erba spazzata dal vento o nelle metope, nella geometria piegata alla luce, nell'entasis di una colonna, negli occhi delle volute dei capitelli, nei volti e nelle vesti delle Cariatidi. 




Loggia delle Cariatidi, Eretteo
Eretteo



Capitello ionico

L'immensità del Partenone polverizza ogni dolore, ogni preoccupazione, ogni ricordo, ogni rassegnazione. 
Molti eventi inattesi portano a compimento gli dei: quello che ci aspettavamo non è accaduto, mentre il dio ha trovato un varco all'imprevedibile. (Euripide, Baccanti).
Tesoro per tempi bui.


Fregio orientale, Partenone






martedì 11 aprile 2017

Atene # 02 - La compagna dei Greci


Le città sono veramente belle o veramente brutte soprattutto a Natale. A me piacciono le città, tutte. Mi piace esplorarle, capirne il respiro, guardare le facce di chi ci abita, i muri, la metropolitana, la vita. A Natale, se hai il cuore duro, vedi tante cose che in primavera sono più sfumate.

Lungo Eolou, ho immaginato le storie di chi attraversa la strada di corsa, rimprovera un bambino, prega (tanto), chiede l'elemosina.
In realtà, ad Atene, sfinita dallo strozzinaggio tedesco, l'elemosina la chiedono in tanti. E a Natale di più, mi è sembrato. E mi è sembrato anche che fosse un'elemosina più dolorosa, più fredda, più umida, più consapevole e più umiliante rispetto a quella di aprile.
Un Natale scintillante e miserevole. 

La Grecia la stanno ammazzando. Non ne parla più nessuno e nel silenzio assoluto i greci vanno a fondo. Un greco su quattro non ha di che vivere. 

Lungo Ermou, ma non solo, un edificio su tre è vuoto, con le vetrine dei negozi sulla strada ricoperte di scritte e giornali, spesso abitato da fantasmi senza più nulla. Così le incredibili luminarie hanno acceso anche gli angoli più dolorosi. 
Una signora con il cappotto, ben vestita, una sciarpa che la proteggeva dal vento gelido. Seduta su una seggiolina, testa bassa, piattino. Poco più in là, in Evaggelistrias, sotto un platano, un quarantenne con gli occhiali, giaccone blu, aria da ingegnere. Lui sì che mi ha fatto male, non so, forse è questione di stereotipi: testa bassa, bicchiere in mano. E così via. Una giovane perbene che vendeva scarpine per neonato fatte a maglia, e sferruzzava. L'ho ritrovata in Adrianou la scorsa settimana, le scarpine ormai di cotone, insieme ad alcune bamboline. Giovani acrobati in piazza Syntagma. Anziani che vendevano pannocchie arrostite. Oggi, alcuni offrono sul marciapiedi davanti a Thissio ciò che resta della loro vita di sette anni fa: scarpe ancora decenti, maglioni usati ma belli, elettrodomestici funzionanti, quaderni di scuola avanzati, abiti, strumenti musicali, orecchini, tavolini, cose tutte di cui a un certo punto si può fare a meno, per pagare la spesa.

Molte case, soprattutto in centro, sono abbandonate. Case anche belle, dell'inizio del Novecento, con balconi in ferro battuto. Sui davanzali ancora qualche vaso. I muri ricoperti di graffiti, vecchie pubblicità, un decoro sui generis. Ciarpame vario, scacchiere rotte, ferramenta.





Erodoto racconta che Serse chiese a Demarato, figlio di Aristone, che lo accompagnava nella spedizione contro la Grecia, se i Greci avrebbero opposto resistenza ai Persiani. Demeraro rispose che "da sempre la povertà è compagna dei Greci, mentre la virtù è un acquisto successivo, frutto della saggezza e di una legge severa: e grazie alla virtù la Grecia si difende dalla povertà e dall’asservimento".
Sarà.



Ma questa sì, è la parte scura e brutta della Grecia. La terra bruciata della crisi, l'urlo dell'indigenza. La gente che prova a sorridere, nei negozi e nelle botteghe, anche con dentature che risentono della situazione. E sorride sempre meno, a dir la verità, nemmeno a beneficio dei turisti. 

Dall'alto, l'Acropoli osserva.





sabato 8 aprile 2017

Atene # 01 - Alpha

Ci sono andata, infine. In cima all'Acropoli, ad Atene, a recuperare un po' della mia grecità interiore. Ci sono andata a Natale, per una settimana, e ci sono tornata per il mio compleanno, quando i fiori iniziano a colorare la terra arsa, e nascono i papaveri dal cuore nero. Raccogliere le idee non è facile, ho vissuto una città ferita, esausta e forse anche rassegnata. E a mio parere emotivamente bellissima. Che rifiuta sdegnata i soldi di Gucci per le sfilate al Partenone
(e Zeus solo sa quanto invece avrebbe avuto bisogno il Partenone, di quei soldi sporchi), che chiede l'elemosina, che prega, che beve caffè freddo per strada anche se nevica, che sorride poco, accecata dalla sua luce impressionante e dal suo buio di povertà. Che sprofonda nel suo passato per non avere un futuro.

Comincia così, la mia riflessione, rileggendo i miei appunti, scritti qua e là. 

Tempio di Efesto

mercoledì 1 marzo 2017

Viaggio all'estero

Quando ho bisogno di tagliare la corda mentalmente, faccio un giro in (via) Paolo Sarpi.
La parola "via" è pleonastica. Non si usa, in realtà. Si tratta di un vero e proprio viaggio all'estero, un estero riproposto in molte città del mondo, più o meno identico, chiamato China Town. 




Qui a Milano consiste in 500 metri di una strada con moltissimi negozi, la maggior parte dei quali vende indumenti brutti oppure offre servizi di informatica oppure oggetti a metà fra la bigiotteria e l'acconciatura, in enormi scatoloni, spesso solo all'ingrosso. Fuori dalla porta sono parcheggiate le biciclette, munite di portapacchi di legno e pezzi di camere d'aria adibite a elastici per fissare gli enormi sacchetti di plastica con cui i proprietari trasportano le merci. 


Fra una vetrina e l'altra, ogni tanto, ci sono trattorie o ristorantini di cucina cinese, ben diversa da quella dei soliti locali sotto casa. A volte il cuoco è in strada, che scambia due parole con qualcuno. Da quando è diventata pedonale, la via si è data un tono ed è diventata una destinazione quasi turistica, molto in voga. Hanno aperto anche due o tre supermercatini e uno più grande e più brutto, e diversi take away con relativa coda di avventori sul marciapiede. Gli italiani che frequentano Paolo Sarpi sono sparuti e sostanzialmente visitatori. Qualche residente c'è, a dire il vero, agé, perlopiù; oppure, la domenica all'ora di pranzo, giovani uso designer e benestanti, hipster a loro modo, stazionano con il pc sul tavolino dei bar. Per il resto, chi percorre Paolo Sarpi appartiene alla nutrita comunità cinese che abita in città, corpo alieno e integrato al tempo stesso, come tutti gli expat ovunque nel mondo. A me personalmente piace tanto passarci un paio d'ore, inventando il significato degli annunci appiccicati al semaforo o delle scritte sui muri. 


Ciondolo stupidamente nel supermarket strettissimo e ingombro dei prodotti più balenghi, cercando il tè al gelsomino, e resto delle mezzore a guardare gli scaffali strapieni di alimenti sconosciuti, funghi secchi di venti specie diverse, alghe, frutti vari essiccati o in scatola, polveri strane, verdure, salse di soia e di pesce, persino alte canne scure (sul biglietto incollato al cesto che le contiene c'è scritto "zucchero di canna"!).
Il congelatore trabocca di robe poco invitanti, dai formaggi al surimi; due metri al di là delle centinaia di spaghetti e tagliatelle di riso, ci sono gli attrezzi da cucina di melanina e alluminio, e dolci confezionati poco invitanti, sacchetti di qualcosa di fritto o di secco, il cui contenuto è descritto in cinese e chissà cos'è.
Lo spazio è davvero molto angusto e la folla di clienti (solo cinesi) è tale che si viene spintonati continuamente, soprattutto se si esita, come me, davanti a confezioni di lychis da 1 chilo o di simil-cipolline in vasetto. Alla cassa la coda è di venti minuti e mi sento proprio a Shanghai, non capisco una parola delle chiacchiere che sento, nell'attesa do un'occhiata ai prodotti di bellezza o alla scatola di tè matcha in polvere (in offerta a 24 euro). 




Esco con il mio sacchetto e una sensazione di piacevole confusione, poi vado dritta al negozio di ravioli da asporto dall'altra parte della strada: la pasta la stende una ragazza piccolina con un mattarello piccolino; alle sue spalle, in un pentolone di brodo, un altro ragazzo te li cuoce al momento e te li serve nella vaschetta con una forchettina di legno. Santiddio che buoni... I ravioli sono sei e non mi bastano, ma alle quattro del pomeriggio non me la sento di esagerare. Trecento metri e sono già tornata in Italia. All'incrocio già non si avvertono più l'odore e il rumore di quel mondo a parte, e corso Sempione si distende verso l'Arco della Pace, trafficato e rumoroso. Pochi minuti e il mio viaggio all'estero è già un ricordo, mescolato a mille altri, alle mille altre China Town. Fino alla prossima fuga.

martedì 24 gennaio 2017

Eterno riposo


A me i cimiteri piacciono. Incontro le storie del mondo, riconosco le vite dal colore di una pietra, dalle parole scolpite, dalle geometrie. Non provo tristezza. È come leggere un milione di libri. Inizio e fine di ciascuno. Di cimiteri ne ho visti veramente tanti.
In un'isola in Irlanda, accerchiata dalla marea, tombe scoperte e ossa antiche che sbucano ovunque. A Parigi, dove riposa il pensiero. In Spagna, con 
strane composizioni di fiori, un po' parossistiche.
I cimiteri ebraici di mezza Europa, spesso con le lapidi sprofondate, spezzate
e abbandonate, con i loro sassolini affettuosi. In Val d'Aosta, con le croci di legno a forma di baita, con balcone e vasi di fiori. E poi i cimiteri anglosassoni, prati di pace.
E quelli militari. E quelli di guerra, dolorosi. Piccoli o sterminati. Popolati da corvi, enormi e spettrali. Bui. Oppure luminosi, a picco sul mare, lo sguardo a Occidente.
Ho centinaia di foto, discrete e rubate, oppure pensate. Un paio di giorni fa sono stata al Monumentale di Milano. La visita era organizzata da una giovane guida appassionata di arte funeraria e prevedeva un percorso a metà fra il misterioso e l'inaspettato, dall'imbrunire.
È stato solo un primo assaggio di uno sconfinato universo immobile. Come si dice in questo casi: da rivedere.