Bicocca

Bicocca
Fausto Melotti, La sequenza, Milano

giovedì 22 dicembre 2016

La lettera a Babbo Natale

Il periodo non aiuta, di suo. Uno scontro aspro con una persona stupida si aggiunge al malumore. Solitudine inquinata alle due del pomeriggio. Gironzolo fra gli scaffali della Coop in cerca di una consolazione, ma non la trovo. Entro nel bar prima di salire a lavorare. 




Il commesso barista è un signore di 56 anni che ne dimostra 70. Ha i denti marci, è un po' dimesso, indossa una specie di maglione natalizio, sempre gentile e suo malgrado positivo, mi chiama "Madame"da quando mi conosce, con il suo sorriso dolce e impresentabile e sempre disponibile. Mi precede nei desideri di caffetteria, in estate come in inverno. Ha scritto la letterina a Babbo Natale?, domando. No, non ci credo più. E lei? Io sì, rispondo. La scrivo sempre, ma non mi porta mai quello che gli chiedo. Chiede cose impossibili?, mi guarda con tenerezza. Forse sì, ammetto. Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Per quello ho smesso, dice lui. Anticipo gli auguri, non so se ci vedremo ancora prima dell'anno nuovo. Mi porge la tazza e mi dice Posso darle un bacione? Certo! Mando giù il cappuccio più buono del mondo, giro dietro il bancone e ci stringiamo in un abbraccio che ha del disperato. Non ci stacchiamo più. Auguri, Madame, davvero. Passi dei bei giorni, rispondo. Non so neanche come si chiama. 

venerdì 11 novembre 2016

Quando l'amore era l'amore



Dance me to your beauty with a burning violin
Dance me through the panic ’til
I’m gathered safely in
Lift me like an olive branch and be my homeward dove
Dance me to the end of love
Dance me to the end of love
Oh let me see your beauty
when the witnesses are gone
Let me feel you moving like they do in Babylon
Show me slowly what I only know the limits of
Dance me to the end of love
Dance me to the end of love
Dance me to the wedding now, dance me on and on
Dance me very tenderly and dance me very long
We’re both of us beneath our love, we’re both of us above
Dance me to the end of love
Dance me to the end of love
Dance me to the children who are asking to be born
Dance me through the curtains that our kisses have outworn
Raise a tent of shelter now, though every thread is torn
Dance me to the end of love

So long, Leonard.

domenica 6 novembre 2016

Storia di Cesare e Katia

Cesare è un signore del 1933. Scrivo il suo nome per intero, perché probabilmente non leggerà questa storia e se anche la leggesse, non ci sarebbe niente di male. Cesare era un dirigente d'azienda e dopo 33 anni di lavoro, grazie a un benservito con i fiocchi, è andato in pensione. Si è goduto un bel po' il suo tempo nuovo, con la moglie e i suoi figli. Poi in sei mesi le cose sono cambiate, è rimasto vedovo e ciao. Il solito abisso senza sogni, lo spavento della solitudine e un'unica risorsa: la fede.
Ecco, io la fede proprio non la capisco. Capisco quasi tutto, ma la fede proprio no. 
Però la fede fa fare tante cose brutte ma anche qualche cosa bella. 
Cesare ha cominciato ad andare a Medjugorje, su e giù come un forsennato (appunto!), a pregare la Madonna eccetera. 

E un giorno, valigie in mano in partenza per la Bosnia-Erzegovina, ha sentito una voce dentro di sé (mi ha detto il termine esatto per indicare la voce che ti ordina di fare qualcosa, ma non me lo ricordo...), ha parlato con il suo padre spirituale e ha deciso di dedicarsi a chi ha bisogno.
Si è presentato in uno dei tanti istituti dove sono parcheggiate persone in difficoltà, ha indossato il camice bianco, un badge con la sua foto e si è messo a disposizione.

Katia ha 24 anni. Da piccolissima si è presa il morbillo, la sua testa si è liquefatta (si dice encefalite) e i genitori l'hanno abbandonata. Questo piccolo scarto umano è stato accudito per 16 anni in un posto simile a un ricovero per animali, senza offesa. Poi è stata trasferita in un ricovero per persone simili agli animali, senza offesa. Sola. Per capirsi, senza nessuno al mondo che le portasse un vestito, uno spazzolino da denti, un paio di scarpe, che tanto non le servono. Tutto ciò che ha, è fornito dallo stato sociale o dalla carità umana. Anche il caschetto che le copre la testa, per non fracassarsela quando si irrita con la vita, il che avviene fin troppo poco, data la sua situazione. Sola. Per capirsi, nessuno va a trovarla: mai.

Otto anni fa la Madonna di Medjugorje, o chissà che altro, ha consigliato a Cesare di occuparsi di Katia. 
Quindi Cesare è diventato padre/nonno/fratello/familiare/amico di ciò che rimaneva del piccolo scarto umano. Giorno dopo giorno le ha insegnato a stare in piedi un po', a sorridere un po', a guardare fuori dalla finestra un po'. Ad aspettarlo, sempre. 
Le compra spazzolini e scarpe inutili, si siede accanto a lei e non di fronte, l'ha portata persino a Lourdes "con l'aereo, eh?" (eh...).
Katia è inguardabile, ovviamente. E non solo Katia. Tutto il circo umano che abita dove abita Katia è inguardabile. Sotto quel tendone di dolore e marginalità, però, il numero per niente acrobatico di Cesare in camice bianco, più o meno illuminato dalla Vergine Regina della Pace, è un bell'esempio per chiunque. 




martedì 4 ottobre 2016

Metaforicamente

Dieci giorni fa ho conosciuto Kevin. Ha 11 anni, vive a Brusson, in Val d'Ayas. Aveva in mano una vipera di legno snodabile, che sembrava proprio una vipera e infatti si era avvicinato a me facendola zigzagare fra le mie gambe, per spaventarmi. Ha un'indole scherzosa, Kevin. Frequenta la prima media ed è veramente sveglio. Si è lamentato perché l'insegnante di italiano è tremenda ("stronza?", ho chiesto... "di più", mi ha risposto sgranando gli occhi). Mi ha fatto anche il nome, della professoressa, che del resto non era valdostano. Kevin possiede (dice lui, ma immagino intenda la sua famiglia) 140 capre. Abbiamo chiacchierato dieci minuti e mi ha spiegato la differenza fra la razza di capra camosciata delle Alpi e la capra valdostana, che ha il mantello scuro, quasi nero, e le corna possenti adatte alle "battaglie delle capre", una sorta di gara a chi cede per primo. En passant, mi è sembra un tipo di confronto che mi appartiene. Ho assistito ad alcuni degli incontri eliminatori di una "battaglia" e non ho ben capito le regole, comunque il proprietario della capra, se si accorge che questa è poco propensa a scornarsi con la capra avversaria o la teme, la ritira. Ne rimarrà soltanto una, per dire...

Io non sapevo niente di questa storia della "battaglia delle capre" e forse ero l'unica al mondo, perché l'altro giorno persino Mauro Corona ne ha parlato su la Repubblica. Quindi, se ne parla Corona, che a me sta pure antipatico nonostante le origini comuni, allora mi sento autorizzata a raccontare di Kevin, delle sue capre che non sono arrivate nemmeno alle semifinali e della sua professoressa più che stronza. 



sabato 17 settembre 2016

Deutschland über Alles # 06 - Amburgo


Nell'elenco di posti che vorrei vedere prima di accomiatarmi e di cose che vorrei fare, c'era Amburgo e un giro nel porto. Esperienza accessibile e in fondo molto banale. Quindi non c'è stato nulla di stupefacente, se non la giornata, i suoi colori e il contesto. Una città fotogenica, anche solo per la sua gradevole dimensione, maestosa e al tempo stesso umana. Dicono che gli abitanti siano un po' snob. Già l'accento lo denuncia, così dolce, quasi per nulla aspirato e meno aggressivo.
C'è di tutto, ad Amburgo, fritto misto di architetture, ideologie, età, razze e lingue, santi e puttane. Una gentilezza generale. O forse sono io, permeabile alla diversità.








giovedì 8 settembre 2016

Deutschland über Alles # 05 - Immigrati

Dunque, la Merkel s'è presa la sua batosta proprio a casa sua, grazie a una sfrenata battaglia contro l'accoglienza degli immigrati e proprio lì dove io non ho visto nemmeno un immigrato (dicono che in realtà ci siano tanti polacchi, su all'Est) . 

Non li vogliono. Né poveri né rifugiati né bianchi né neri né sfaticati né lavoratori né colti né ignoranti. Non li vogliono e basta. 
Anche dove, apparentemente, non tolgono niente a nessuno, come in Meclemburgo-Pomerania.
Anzi, non li vogliamo, questa è la verità.

Però, così come per tutta l'estate a Milano c'è gente che ha portato abiti e viveri all'Hub della Stazione Centrale o nei centri di raccolta, così anche in Germania c'è gente che la pensa in un altro modo. 

Non so quale sia la strada giusta e non mi interessa molto conoscere quale sia il margine di benessere erodibile in Germania o in Italia o In Francia. Non so nemmeno se questo sia percepito o reale; immagino che le migrazioni siano inevitabili, al contrario dei conflitti e dei profitti.

In linea di massima mi confortano le immagini che seguono, per un istintivo principio di umanità e di giustizia. 
Poi lo so, non è così semplice.

Berlino

Amburgo (Nessun essere mano è illegale)
Amburgo


sabato 3 settembre 2016

Deutschland über Alles # 04 - Berlino

L'immagine più viva che conservavo di Berlino (1988, durante un viaggio particolare, diciamo "di scoperta") era quella di una pasticceria dell'Est, con due (due!) torte spessissime e obiettivamente tristi, esposte in vetrina su un banco a gradoni di legno. E poi i buchi fra le case: casa, casa, casa, buco, casa, buco, casa, buco... ogni tanto un edificio, probabilmente distrutto da un bombardamento, non era stato ricostruito. E molte donne sole, spesso anziane. E il muro, certo. Ho anche la foto che mi ritrae con J., abbastanza (ma abbastanza) vicini, davanti a un tratto di muro colorato, quindi sul lato Ovest.
E la fermata della metropolitana "saltata".
Poi basta. 

Ci sono tornata, dopo troppo tempo e troppe cose. 

Ovviamente le pasticcerie adesso sono tutte belle, la metropolitana ferma in tutte le stazioni e le case le hanno ricostruite. Non tutte, quelle.
Berlino è un cantiere, da vent'anni. Non c'è marciapiede, isolato, strada, incrocio, parco, edificio che non sia spalancato e non sia in ristrutturazione/costruzione. 
Una città sventrata, intesa a cancellare, rifare, riprogettare, cambiare (soprattutto).

La prima passeggiata, iniziata con il cielo bianco sopra Berlino, mi ha scoraggiata. Fra transenne, ruspe e turisti che non guardano la Porta di Brandeburgo ma il cellulare proteso davanti a sé e la mercificazione di ogni segno del passato ma anche del presente e del futuro, mi è apparsa una visione alterata della metropoli, che per tallonare la sua nuova fama di "place to be", mi pare comunque in affanno. Tutto è solo parzialmente accessibile, causa restauro o rinnovamento o soppressione. 

Ecco, secondo me l'idea di conciliare gli errori di un tempo (dalla questione ebraica alla DDR) con le aspirazioni di oggi a suon di luoghi commemorativi (centinaia di memoriali per significare ogni lutto di ogni categoria di persone) e calcestruzzo, è straniante.

Ovviamente Est ed Ovest sono tutt'uno, fisicamente e in buona parte anche culturalmente e filosoficamente e mentalmente e ogni -mente. Il cemento funzionalista resiste in qualche posto, più per scelta economica che urbanistica. A volte si ha l'impressione che il palazzone stia per crollare, talmente è storto... Dove possibile, le ruspe sono ancora in azione. 

Il muro, per esempio, adesso è una specie di traccia per terra, salvo pochi metri lasciati in piedi per motivi vari, principalmente turistici.  
Le cose da vedere ho cercato di vederle, dall'infantile ascesa sulla Torre della Televisione alla Porta di Ishtar (l'Altare di Pergamo era in fase di trasferimento ad altra sala..). 

Mi sono concentrata sulle persone e sul loro modo di muoversi. Gli impiegati, gli studenti, gli operai appesi ai ponteggi, le commesse, le ragazze (vanno molto i capelli color fucsia). Dalla periferia ogni giorno ho raggiunto il centro con la mia bicicletta portata da casa, caricandola sul treno. Sembrava un rottame rispetto alle altre. Sulla carrozza apposita (eh...) ho osservato gli ingegneri con il pc e il caschetto protettivo, la bici sotto il braccio di corsa per le scale della metropolitana (anche se ci sono gli ascensori, garantisco!); c'è qualche famiglia di immigrati, perlopiù siriani (ma pochi, se è vero che la Germania ne ha accolti più di un milione), e ci sono molti ragazzi. Dicono che i berlinesi siano già stufi di questa trasformazione radicale modaiola e in nome di art&design&wathever. Tutti 'sti ggiovani che hanno hanno fatto lievitare gli affitti e vivono di giorno e di notte e creano e studiano e connotano... Solita storia. Della serie "Venezia è bella ma non ci vivrei", Berlino è viva ma non ci morirei.

Ho portato a casa con me:

 - Karl-Marx-Allee, per l'architettura (eh sì!), il respiro, il progetto e l'armonia. E anche per il Festival della Birra che vi si tiene una volta all'anno, della birra me ne frego perché non la bevo, ma il contorno è indimenticabile.
- Un incrocio di strade dietro la Sinagoga Nuova, dove non ho visto un solo turista ma mamme con passeggini, gallerie d'arte, studenti, un teatro in attesa di un futuro. Seduta a un tavolino di una pasticceria (neanche troppo elegante), mi sono concessa per 2 euro e 50 una fetta di torta e un caffè incredibile, sul marciapiede di un mondo normale.
- Alexander Platz: sconclusionata e immensa, c'è tutta la contraddizione che serve a non sentirsi in colpa per nulla.
- Molta arte da molti musei.
- Molte foto.
- I tubi colorati e labirintici per scaricare l'acqua della faglia su cui galleggia la città.
- Il piacere di girare in bicicletta senza pericolo di morire; nel meraviglioso, straordinario, invidiabile, giusto e rassicurante rispetto delle regole. Tutte. Non solo quelle stradali. 
- Il cielo azzurro sopra Berlino dell'ultimo giorno.
- Una certa spensieratezza.










   











martedì 30 agosto 2016

Deutschland über Alles # 03 - La gioia rende liberi

Escono tutti e quattro dal cancello di una casetta delle vacanze sull'isola di Hiddensee con il tetto di paglia. Sono scalzi e con gli asciugamani in mano. Il cielo è coperto, qualche goccia di pioggia. Chiacchierando e a passo veloce raggiungono la duna, poi in fretta via i vestiti e di corsa in acqua, ridendo e giocando e gridando e spruzzandosi.
Un quarto d'ora di gioia pura, semplice, nuda, come i loro corpi, così belli, così liberi.
La felicità qualche volta basta guardarla.




(alla fine, papà e ragazzi escono dalle onde, si avvolgono con gli asciugamani e si abbracciano; la mamma resta un po' da sola in acqua, si lascia accarezzare dal mare, guarda lontano, 5 minuti tutti per sé)

venerdì 26 agosto 2016

Deutschland über Alles # 02 - Il senso dei tedeschi per la DDR

Allora. A cavallo degli Anni ’90, la Germania dell’Ovest si è comprata ai saldi quella dell’Est, con annessi e connessi. I tedeschi dell’Ovest han detto a tutti che quelli dell’Est erano dei pezzenti, tutti spie (o quasi), schiavi e/o complici della Stasi, ignoranti e lazzaroni, mantenuti dallo Stato, arretrati culturalmente. Eroe chi scappava, vile e comunista (d’apparato, anche…) chi non ci provava.
Da quando hanno picconato il Muro sia quelli dell’Ovest sia quelli dell’Est si sono prodigati più o meno amichevolmente per cancellare ogni traccia del passato, demolendo edifici (soprattutto) e attribuendo ogni elemento funzionale all’etica socialista reale, brutta e cattiva. I tedeschi dell’Ovest hanno cambiato persino l’aspetto di quelli dell’Est, li hanno impiegati in posti statali (nelle scuole, per esempio… erano bravi insegnanti di tedesco e matematica), oppure li hanno messi a produrre in fabbrica, assimilandoli ai turchi. Con un generico sguardo commiserevole li hanno tenuti lontani dai posti di comando. Fino alla Merkel, che avrà piazzato i suoi sodali là dove era utile. E si sa, una buona dose di esperienza organizzativa serve sempre.

Insieme poi, i tedeschi tutti hanno pensato, secondo un rodato ingegno capitalista, di far fruttare il marchio DDR, con musei in quasi ogni città dell’Est, possibilmente nella locale sede dell'Ufficio del Ministero di Sicurezza dello Stato, nei quali hanno esposto merce di vario genere che a noi ricorda quella degli Anni ’50 invece risale agli Anni ’80 (sai che reperti!), foto di Honnecker che stringe la mano a Gorbaciov, esempi di lugubri sistemi di controllo dei media, parrucche, pance e occhiali finti per i pedinamenti della polizia segreta, oggetti da campeggio, timbri postali, materiale di reclutamento per informatori, bandiere, ricostruzioni di celle per interrogatori, cassette Basf per registrazioni telefoniche, pezzi di muro di Berlino, caschi asciugacapelli da parrucchiere, masserizie di uso comune, tappeti di lana inneggianti all'unità dei lavoratori (questa sconosciuta). Danno anche un finto visto d'entrata nella DDR e per soli 2 euro (!) aggiuntivi, si possono scattare fotografie. 

A margine delle istituzioni, singoli privati vendono in strada maschere antigas e colbacchi, indumenti militari, spillette, robe così. Saggi del regime a pochi euro, disponibile per tutti. Ai turisti noleggiano persino le Trabant. O le espongono, insieme a pezzi di motore.

Ché si sa, il comunismo è sconfitto, l’individuo trionfa e soprattutto pecunia non olet.

Capitolo a parte, che merita non poco, è quello dell’edilizia. Dato per certo che i “casermoni socialisti” sono brutti, dove è stato possibile (o conveniente o necessario) li hanno rasi al suolo. E continuano a farlo. Oppure li hanno dipinti con colori pastello, per cancellare il “grigiore”, ideologico prima che cromatico. Perciò, sfrecciando in bicicletta a Dresda si vedono enormi ruspe che inghiottono una roba di 6/7 piani di cemento armato con finestroni quadrati. Chissà chi ci ha lavorato o abitato (dal punto di vista architettonico la funzione è spesso indistinguibile). Oppure, appena fuori dal centro di Lipsia, si attraversano quartieri un po’ anonimi, i famosi blocchi abitativi che, per quanto orripilanti, non hanno niente a che vedere con alcune periferie italiane (il milanese quartiere Gratosoglio ne è un esempio).
Qualcosa è rimasto in piedi per disattento rispetto per passato, per criteri economici o perché neanche le bombe strategiche degli Alleati ne hanno avuto ragione. Non si sa a chi credere. In ogni caso, in un paio di decenni il processo di rimozione, almeno all’apparenza, ha funzionato.

Le persone, invece, quelle son difficili da cancellare. Soprattutto i vecchi (tanti, forse perché siamo in estate). Hanno proprio uno sguardo diverso, una postura diversa, un modo di vestirsi diverso. Hanno anche un tedesco diverso, più asciutto, più aspirato, più aggressivo. Sono gentili, ma l’atteggiamento è ancora quello di chi non si fida (sempre i vecchi). Efficienti nelle loro professioni, pubbliche o private, ma poco inclini alla chiacchiera. Forse è anche un retaggio prussiano. Così, a prima vista, non sembrano immensamente più felici di quando li ho incontrati nel 1988. I colori sono gli stessi. Molto ingenuamente, mi chiedo se bastino le ruspe e l’ostensione delle reliquie sovietiche per costruire una società felice, ammonendo i posteri. Se omologare il consorzio umano buttando via tutto, si possa definire progresso. Così, dal Baltico a Lubecca, dal Magdeburgo a Usedom, il rigore formale si accompagna a una strana idea di rinnovamento, una passata di candeggina su trent’anni di storia. Adesso, nonostante l’economia fiorente e la disoccupazione al 6,1%, la posizione dominante e tutto il resto, in Germania come ovunque i poveri sono davvero poveri e i ricchi davvero ricchi. I giovani neanche lo sanno, com'era solo pochi anni fa. E poi ci sono gli immigrati: appunto, dove sono? Non qui.

(Berlino, è un caso a sé. E quindi richiede una riflessione a sé.)


Lipsia
Dresda

Berlino

Radebeul
Museo della Stasi, Lipsia
Berlino
Museo della Stasi, Lipsia

martedì 23 agosto 2016

Deutschland über Alles # 01 - Rügen

A Rügen ovviamente non ci sono le foche. Questo lo sapevo. Ma ci sono le scogliere di Friedrich. Che son belle, sì, candide e identiche a tutte le scogliere di gesso, forse un filino più inquietanti, dato il contesto naturale.

A Rügen molte strade sono lastricate a pavet, quindi se giri l'isola in bicicletta, il culo non è contentissimo. 

A Rügen ci si arriva immaginandosi chi sa che, e infatti è un mondo a parte.
I villeggianti sono veramente un po' strani e praticamente solo tedeschi. Presumibilmente alcuni sono molto ricchi, a giudicare dalle bellissime architetture balneari Anni '20, di legno bianco, tutte occupate dai turisti.
Ma sulla sabbia bianca, e anche con un 
Fischbrötchen (panino con l'aringa o altro pesce semicrudo) in bocca, non si evince una grande opulenza. Anche dall'abbigliamento, non si direbbe. 
O forse si dovrebbe dire, guardando i famosi chilometri di casermoni nazisti di Prora, che ormai sono diventati residenze e alberghi di lusso, quasi tutti ultimati, con obbligo di rispettare (più o meno) la struttura originale, e provvisti di ufficio vendite in loco. 

Comunque a Rügen ci sono anche tanti hippy o grossomodo hippy. Hanno i capelli lunghi, girano scalzi, hanno tanti figli, bevono molta birra (quella non solo a Rügen). E si muovono rigorosamente in bicicletta. Ti fan sentire giovane, e non è male. Del genere: se rinasco... ecc.

Rügen le spiagge sono bellissime. Affittare una poltrona in vimini per due con coperchio antivento (Strandkorb), costa pochi euro e tutti fanno il bagno nell'acqua cristallina, con temperatura intorno ai 18°C, quindi abbordabile. Sono tutti sorridenti e gioiosi. Ci sono molte spiagge FKK (Frei Körper Kultur, cioè per naturisti), il che a mio avviso sarebbe un'opportunità meravigliosa e da non perdere per niente al mondo, ma la temperatura dell'aria, quella sì per nulla abbordabile, si aggira sui 15-16°C con vento sostenuto da Nord, quindi è un po' come la volpe e l'uva, un vorrei ma non posso che definirei urticante, in senso stretto.

Rügen, volendo, si può organizzare il pranzo di nozze seduti dentro una specie di navicella sulla spiaggia. In dotazione anche la statuina degli sposi e il modellino di un veliero. Da ascrivere al capitolo "Romantisch".


A Rügen ho trovato solo due mezze giornate di sole, ma non di sole sole... di quel sole lì bello nordico, con i nuvoloni bianchi. Poi basta. Perciò a parte Prora, gli hippy, il panino con il pesce, l'architettura elegante di Binz e i moli protesi nel mare per centinaia di metri, la luce di Rügen l'ha colta solo Friedrich, quando non era circonfuso dai suoi incubi. Ed è già una meraviglia.