Bicocca

Bicocca
Fausto Melotti, La sequenza, Milano

mercoledì 27 novembre 2013

Non basta

Il pregiudicato finalmente è fuori dal Parlamento.
Che la Natura dia ora una mano a questo povero Paese, a noi, ai nostri figli.
Che si metta una mano sul cuore e lo deponga, come fa spesso con chi non se lo merita.

Come ho detto a un giovane muratore felice, oggi, mentre portava il suo sacco di cemento sulle spalle, l'economia si potrà forse risollevare nell'arco di qualche anno.
L'etica, purtroppo, no.


sabato 23 novembre 2013

Allontanarsi, treno in transito

Le stazioni dei treni mi attraggono e mi distraggono. Mi piacciono tutte le stazioni, quelle gigantesche e caotiche, quelle piccole sulla costa, quelle di montagna, quelle anonime, quelle dall'architettura prepotente, quelle nuove, quelle che sono alla fine della linea ferroviaria, quelle di passaggio. Mi piace - tanto - la Gare de Lyon, anche se una volta ho perso il treno e l'ho attraversata di corsa, cercando dannatamente il quai giusto, e poi ho visto il culo dell'ultimo vagone che si allontanava... Mi piace Piazza Principe, dove mi commuovo sempre, perché sono una sentimentale e so cosa sto lasciando. Mi piace Penn Station. Mi piace anche la Centrale di Milano. 
Da quando l'hanno ristrutturata, non è più lei. L'hanno farcita come un panino con negozi monomarca, con vetrine enormi che espongono milioni di smartphone legati con il lucchetto ai ripiani di plexiglass, con bar, profumerie, grandi magazzini di elettronica. Hanno acceso luci violente che abbagliano la volta della galleria, e hanno messo dei tapis roulant lentissimi cui si accede dopo essere passati davanti a tutti gli orrendi spazi commerciali. Fra questi, c'è un punto vendita di una catena di cui non sapevo nulla fino a ieri, la spagnola Desigual. Musica a volume alto, abbigliamento e accessori coloratissimi, fra l'etnico e l'avanguardia. Sono entrata a curiosare, ho pensato: "Se avessi vent'anni mi comprerei qualcosa".
Poi ho capito che se avessi avuto vent'anni non avrei avuto i soldi per comprare nessuna delle meraviglie esposte. Forse i ventenni di oggi hanno una disponibilità economica diversa. Mi sono incamminata verso il piano binari e lì tutto è tornato più o meno come una volta. L'altoparlante che annuncia decine di ritardi, sporcizia, puzza di piscio, i muletti che pestano i piedi alle migliaia di viaggiatori che si scontrano correndo, sospinti dalla necessità.
I partecipanti alla scena sono di ogni colore e di ogni natura, dall'uomo in doppiopetto che si trascina la Samsonite al maghrebino che vende qualcosa, dalla scolaresca di ritorno dalla gita al pendolare sfinito che si affretta e smadonna contro il mendicante che gli si para davanti, dalla signora senza casa e senza denti al diplomatico che sale sul Freccia Rossa con la scorta. Qualche poliziotto passeggia in coppia chiacchierando del più e del meno, una voce avverte che la stazione è provvista di telecamere di sicurezza. Il tabellone richiama gli sguardi un po' troppo in alto; il celebre binario 21 è irraggiungibile a causa delle transenne dei lavori in corso. Qualcuno mi spintona, un tizio dagli occhi azzurrissimi mi chiede se il treno del binario 7 va a... E che ne so, io? Provo ad aiutarlo, si scoccia e corre via, lasciandomi con la parola a metà. Al piano binari non c'è molta luce. Tutto è scuro, buio, ogni tanto i lampi di pannelli pubblicitari ossessivi e violenti rischiarano per cinque secondi qualche metro quadrato di un selciato unto, nero, chiazzato. Mi è tutto familiare. Qualcuno si abbraccia, qualcuno piange, molti sono stanchi. Penso alle mie partenze e ai miei arrivi, a chi ho accompagnato e a chi ho accolto. Tanto tempo. La stazione, simbolo del viaggio, teoria pura di sopravvivenza.


Si è fatto tardi, l'altoparlante annuncia il solito ritardo e poi un treno in partenza per Zurigo. Chi aspetto arriva al binario 4, è finita la mia attesa: mollo il passato e mi concentro sul presente.

Scendo le scale infinite che mi riportano in piazza Duca d'Aosta. Cerco con lo sguardo la comunità di siriani, con molti bambini, che da settimane si rifugia qui, in attesa di proseguire la fuga verso Nord. Sono assistiti dai connazionali che portano abiti e cibo. Sono persone benestanti, scappate dalle bombe, sopravvissute a naufragi e incursioni delle forze dell'ordine, che fortunatamente ogni tanto fingono di non vederle. Anche la loro è una teoria di sopravvivenza: non devono farsi prendere le impronte digitali qui, altrimenti saranno costrette a chiedere asilo politico all'Italia, e non vogliono. I parenti li aspettano in Svezia. Magari qualcuno verrà a prenderli. Magari un pullman "sicuro" parte domani mattina.
Lo spero per loro.


Scivolo in metropolitana, aprendomi un varco nella calca del venerdì sera.
Ricordo una stazioncina tranquilla, il mare dietro ai binari.









giovedì 21 novembre 2013

Cento giorni (di felicità)

Non sono molto sensibile alle promozioni letterarie, però mi ha colpito che il libro di un regista e sceneggiatore italiano non troppo originale abbia sbancato alla Buchmesse di Francoforte: è stato acquistato da decine di case editrici in tutto il mondo, così, sulla fiducia.
La storia è semplice: a un mediocre ex pallanuotista quarantenne viene diagnosticato un cancro in fase terminale. Tre mesi e rotti di vita, e ciao.
Lui ha la sua bella famigliola, vivacchia fra insuccessi e sogni di bambino rimasti tali, ha un lavoro di merda. Vabbè, il resto si intuisce: negli ultimi cento giorni che gli restano prova a mettere ordine, con la complicità degli amici più cari e con tanta tenacia. Con un filo di coraggio, che gli fa onore, sceglie il suicidio assistito, tema non facile da affrontare, di questi tempi. Il titolo però secondo me inganna: io non l'ho vista la felicità. Ho visto un po' di riparazione, un po' di consapevolezza, ma la felicità, quella, no.
Ovviamente l'età dell'autore e del protagonista hanno una facile eco nei lettori della sua generazione, che è più o meno la mia. In noi che riconosciamo i suoi piccoli e grandi progetti, i fallimenti personali annunciati, i brani musicali (Tom Waits... ahhhh...), le trovate, gli errori. Quindi è una passeggiata dentro, sopra, a fianco, sotto noi stessi. Con un filino di ironia che opacizza il dolore e la paura, soprattutto di non avere (più) tempo.
Non grido al miracolo, anche se la scrittura è fluida e c'è anche qualche cosina di geniale, come ricordare ogni tanto, in modo leggiadro, tutte le idee originali di Leonardo. Molte delle quali, però, sono rimaste idee: perché tra il dire e il fare, anche per Leonardo, come per noi.... E lo sa bene anche Fausto Brizzi. Che vorrebbe diventare scrittore. Se questa è farina del suo sacco, se lima gli eccessi di fantasia, se non molla, ce la farà. Spero.

P.S.: la spiaggia, però, non degrada: digrada. Lo dico anche al revisore di Einaudi, che non mi leggerà, perché lui fa parte di quelli che invece ce l'hanno fatta.

sabato 9 novembre 2013

Bill il Grande

Sono consapevole che ormai la notizia è già vecchia e scriverne oggi ha poco senso. Ma poiché le uova sono buone anche dopo Pasqua, e l'influenza che mi ha steso non ha nemmeno provato a spegnere il mio tributo, vorrei spendere un minuto di ammirazione sul gigantesco Bill De Blasio: enorme, italoamericano che parla davvero in italiano e non dice con quell'accento lì "Ai wanna baiacarrr", è figlio di un alcolista morto suicida, ha sposato un'intellettuale nera (ex) lesbica, ha fatto il viaggio di nozze a Cuba, ha sostenuto i Sandinisti, ha un figlio che sembra la reincarnazione di una Black Panther ma che si chiama Dante (Dante!!!), vuole togliere ai ricchi per dare ai poveri, lotta per i diritti dei gay,
va in bicicletta. Il suo programma (eh...): scuola pubblica, case popolari, tutela dell'ambiente e aliquote maggiorate sulle fasce più abbienti. Si è portato a casa New York con il 73% delle preferenze.

Senti, Bill: non sarà facile. Ma che sollievo sapere che almeno c'è chi ci prova!!





domenica 3 novembre 2013

Nonna, ho fatto un salto a Barcellona...

Mia nonna Carla era una telespettatrice esigente (anche una radioascoltatrice esigente, a dir la verità). Si inchiodava davanti ai documentari che raccontavano il mondo, lei che da bambina aveva fatto il grande viaggio in nave, per emigrare negli Stati Uniti, nel 1912. Era andata molto male e una volta tornata al paese, orfana di madre e con qualche parola di inglese scolpita nella testa (Sciadap! Biutifol! Potetos!), non si era mai più mossa fino alla seconda emigrazione, nella Lombardia industriale postbellica. Le piaceva un sacco guardare in tv le storie e i costumi di popoli lontanissimi o vicinissimi, diceva che era come andarci di persona, soprattutto da quando mio padre le aveva regalato una delle prime televisioni a colori. 
Devo aver ereditato qualcosa da lei, oggi che il computer ti porta dove vuoi. Preparo viaggi immaginari, visito luoghi, mi incanto davanti alle riprese di qualche webcam piazzata a New York, so cosa succede nella nuova Russia, oltre alle Femin e alle acrobazie sul lettone di Putin, salgo sull'Everest, scendo negli abissi.

Ieri sono capitata per lavoro sul sito del Centre de Cultura Contemporània de Barcelona (www.cccb.org). A parte l'incredibile offerta di eventi, dibattiti, installazioni, video e mostre (per esempio quella della World Press Photo 2013), varrebbe la pena anche solo scoprire come uno spazio vecchio e abbandonato, un tempo ospizio per i poveri, sia stato riportato alla vita e rianimato da una geniale e visionaria aggiunta architettonica, un muro di specchi eretto nel cortile che accende l'immaginazione in modo funzionale.




Detto questo, mi sono domandata: perché a Milano non c'è nulla di simile? Perché a mala pena sopravvive il PAC, con proposte modeste, visitate (poco) solo dai turisti stranieri?
Perché il progetto del Museo di Arte Contemporanea che doveva sorgere in mezzo allo scempio volumetrico della vecchia Fiera è stato cancellato? Perché sono rimasti solo decine di grattacieli residenziali vuoti (!!!) e un parallelepipedo di cemento in costruzione, che sarà la sede di una compagnia di assicurazioni?
La risposta è una sola: perché non ci sarebbero visitatori. Perché l'arte non interessa. Perché la cultura è diventata un lusso (come la scuola): 8 o 10 euro per il biglietto di ingresso sono tanti quando il 41% dei giovani è disoccupato; e, a differenza di Barcellona, non c'è una mezza giornata alla settimana con ingresso gratuito. Perché ai ragazzini si compra l'IPhone e non si insegna la gioia del pensiero, della scoperta. Perché questo vergognoso Ventennio ha prodotto anche e soprattutto questo: il deserto della curiosità. Ha cancellato il piacere di guardare, di ammirare, di ascoltare i segni. Non ha capito che di arte si può vivere, rivivere. Rinascere.

Dopo questa deriva amara sono tornata al CCCB e mi sono spostata sul sito del vicino Museu d’Art Contemporani (www.macba.cat). Ho guardato la meraviglia abbagliante del suo guscio, gioiellino di Richard Meier, e scorso le mostre in programma per il 2014: sono nove, una più bella dell'altra. Pensare che a Barcellona vanno tutti per Gaudì. 

Poi si è fatto tardi, e il quotidiano mi ha richiamato. Prima di "spegnere", ho pensato: nonna, ho fatto un salto a Barcellona. Sapessi cos'ho visto...