Bicocca

Bicocca
Fausto Melotti, La sequenza, Milano

venerdì 25 luglio 2014

Solo il ricordo

Io penso che quando si tirano le bombe sulle case, sulle scuole, sugli ospedali, quando si ammazzano i bambini, quando si spogliano i prigionieri e li si fa inginocchiare, quando si toglie l'acqua, quando si toglie l'aria, quando si toglie il respiro, l'umanità non esiste più. E in questo silenzio del mondo, spero che almeno una voce si alzi e ricordi il passato. Perché solo il ricordo, mai così lontano, può salvare oggi Gaza e il popolo della Palestina. E Israele.

giovedì 24 luglio 2014

Quando qualcosa va storto

B. è una bella ragazza, bionda, ben vestita. Ha una ricca maglietta bianca ricamata, e un paio di pantaloni di lino bianchi. Elegante, curata. Non come le altre. È lì dentro da dicembre, io non l'avevo mai vista. Certo, ci vado poco. Il meno possibile. Vorrebbe uscire, infatti quando compongo il codice sulla tastiera della porta per entrare lei è al di là del vetro, spera di sgattaiolare, spera che nessuno se ne accorga, spera di riuscire a scappare. È fra le poche che capiscono, fra le poche che parlano, che concepiscono un pensiero. Fra le poche che sperano. Purtroppo.
È un'intrusa, più o meno.

Mi accoglie, mi saluta, mi segue, e interrompe la mia conversazione burocratica con chi comanda. 
"Posso uscire?", chiede. 
"No". 
"Perché?"
"Lo sai perché. E poi sono occupata con questa signora, ne parliamo dopo".
"Mi comporto bene, te lo prometto".
"No".
Chi comanda prova a scusarsi con me: sono in tante, escono a turno, mi dice sorridendo,
a bassa voce. Oggi non è possibile.

Certo. Capisco. Ringrazio, infilo le carte firmate nella borsa, saluto dolcemente l'"ospite" per cui sono venuta e mi avvio all'uscita.
B. mi segue.
"Posso venire con te?", mi chiede.
"Devi chiedere il permesso... credo..."
"Posso andare con lei?", implora rivolta a una persona che non comanda, ma è lì per eseguire.
Permesso negato. 
"No."
Mi si stringe un po' lo stomaco.
"La prossima volta...", propongo imbarazzata. 
"Quando torni?"
"Non lo so.... "
Cerco una soluzione momentanea e oso un "Mi fai vedere la tua stanza?"
Mi accompagna. Mi mostra il suo letto. Sulla mensola in alto c'è un orso di peluche con la maglia dell'Inter. "Sei interista?" 
"Sì."
Sul comodino ci sono alcune cornici portafoto. Ne prendo in mano una. "Chi è?", domando.
"Mia sorella". 
"E questa sei tu?"
"Sì, da piccola. Nell'altra siamo io e mia sorella, da piccole". Anche la fotografia è minuscola, un po' sbiadita. Anni Ottanta. Due graziose bambine bionde. Lei è la più carina, ha gli occhi verdi. 
"Che belle..."
"Sì".
"E i tuoi genitori?"
"Boh".

La prendo per mano, le chiedo quanti anni ha. Trentasette. 
"Allora io vado...", sussurro. 
"Ti accompagno".
Sono a disagio, so che vuole venire via con me.
"Certo. Allora la prossima volta andiamo giù a bere un succo di frutta", le dico. Le do un bacio sulla guancia.
"Quando sarà la prossima volta?"
"Presto".
"Quando?"

P.S.: Io dovrei andarci più spesso, lo so. Lo faccio con tanto dolore, per dovere. Però forse un giro lì dentro farebbe bene a tanti, almeno una volta nella vita. Così, tanto per vedere cosa succede quando qualcosa va storto. 


giovedì 17 luglio 2014

Il pesce e le persone perbene

Due mesi fa ho perso le chiavi del lucchetto della catena della bicicletta. Sono andata al mercato a comprare la frutta e la verdura: ho legato la bici a un palo della luce, un po' distante, per non istigare al furto. Carica di sacchi e sacchetti, sono ripartita e, probabilmente, nel sistemare gli acquisti nei due cesti portapacchi, mi sono cadute le chiavi. Arrivata a a casa, mi sono accorta di non poter legare la bicicletta e mi sono molto stizzita con me stessa, per la poca attenzione. Il portachiavi è un pesce di cuoio ricoperto di perline, me l'ha portato dall'Africa una persona a me cara (e l'Africa è un suo antico sogno, quindi ha un doppio significato).
Sono tornata fino al palo della luce e, sul gradino del muretto che circonda un albero vicino, ho trovato il mio pesce con le chiavi. Una persona perbene l'aveva raccolto e appoggiato lì, in vista, se mai fossi tornata a cercarlo.

Oggi ho perso di nuovo le chiavi del lucchetto della bicicletta. Lungo la strada per andare a un appuntamento, mi è caduta la catena della bici (la poveretta, anche se giovane, è malandata, ha preso una brutta botta un mese fa e risente di un assetto ahimé raffazzonato!). Sotto il sole cocente l'ho ribaltata, ho rimontato la catena con le mani tutte sporche di grasso e sono ripartita, sbuffando. Arrivata a destinazione, le chiavi non erano come al solito nel cestino, dove pensavo di averle messe. Seconda arrabbiatura. Stavolta mi sono proprio incazzata, non si può vivere nelle nuvole in questo modo. E poi insieme a quelle del lucchetto ci sono le chiavi della cantina, del portone, di un'altra catena, della casella della posta... e poi il pesce, il mio pesce africano!!
Ho ripercorso tutto il (lungo) tragitto praticamente in contromano, scrutando ansiosa fra rotaie del tram e buche nell'asfalto, ma ovviamente non c'erano.
Sono tornata sconsolata nel punto dove mi ero improvvisata meccanico, sperando fossero lì per terra, ma niente da fare.
A pochi passi c'è un cinese che vende vestiti brutti e costosi con un camioncino. Stavo per rinunciare, quando mi sono detta "magari...". Ho chiesto se per caso...


Il cinese ha voluto che descrivessi il pesce di perline, e dentro di me si è mosso il mondo.
Un signore perbene aveva raccolto il mazzo di chiavi e gliel'aveva dato, in caso qualcuno lo reclamasse... L'ambulante è stato brusco e un po' antipatico, ma se ne può dedurre che:

1) il pesce (e chi mi l'ha dato) mi vuole bene, mi accompagna, non si stacca.
2) ci sono molte persone perbene, che non vediamo quasi mai, ma ci sono. Anzi, forse sono più le persone perbene che le altre; fanno meno rumore, tutto qua.



giovedì 10 luglio 2014

Il nuovo che avanza

Mi sono resa conto che ormai il concetto di "blog" è obsoleto e perde sempre più consenso. Alcuni blogger che seguo, per esempio Matteo Bordone (www.freddynietzsche.com), non hanno pubblicato nulla per mesi interi, oppure hanno annunciato la chiusura del blog, spesso perché si sono "trasferiti" su Facebook, dove vige una comunicazione più rapida e immediata, spesso corredata da fotografie che rimandano a situazioni del momento, con riflessioni compattate in poche parole, o con semplici link a contenuti altrui. 
Bordone, per esempio, sostiene che un blog ha senso e funziona se è frequentato, se le persone lasciano un commento, se la platea è vasta e attiva. Addirittura si chiede se non sia il caso, il suo naturalmente, di farsi ospitare all'interno di una testata. Naturalmente io non ho la pretesa di una platea vasta e nemmeno attiva, forse modestamente mi accontento di chi ogni tanto si sente coinvolto o compreso o toccato o semplicemente guarda una mia foto e la trova bella. E lascia una riga. 
Per continuare a fruire dei pensieri e delle idee di persone che mi interessano
(l'obiettivo di un blogger dovrebbe essere la condivisione, credo), mi ero creata un profilo Facebook anonimo, che mi permetteva di accedere alle pagine che mi interessavano. Facebook me l'ha bloccato, obbligandomi a fornire copia di un mio documento (provvisto di foto) per verificare la mia identità, anche se non avevo mai postato nulla (quindi non si trattava di una censura di merito).

Ci ho pensato un po', poi mi sono creata un nuovo profilo vero, con tanto di nome e cognome. La scelta dell'anonimato era dettata dal desiderio di non essere rintracciabile senza fatica da persone che evidentemente non avevano avuto interesse a frequentarmi per anni e che, solo grazie alla disponibilità di un database, erano mosse dalla curiosità di contattarmi. In ogni modo, si può sempre non rispondere alle richieste di amicizia e non accedere al profilo. Chi mi cercasse in questo modo, non avrà risposta. Pace. 
Almeno potrò continuare a leggere chi mi interessa e se questo è il nuovo, che nuovo sia.
Resto invece fedele al mio piccolo Out of the box, perché credo che il tempo richiesto per immaginarlo e realizzarlo riesca a filtrare certe espressioni di avventatezza, certi impulsi un po' istintivi, e a scremare un po' di banalità: in ciascuno ce n'è una buona dose e, per quanto mi dolga ammetterlo, anche in me. Finché posso, scelgo ancora il vecchio stile. Sarà, ma secondo me a volte il nuovo che avanza, avanza male.



martedì 8 luglio 2014

Dieci cose che avrei voluto fare e che posso ancora fare

- Farmi cantare "You've got a friend" da James Taylor (o altra lirica a sua scelta, purché rimandi al mio passato)
- Fare parapendio in barba a qualsiasi responsabilità
- Nuotare con i delfini
- Imparare male il russo
- Vedere San Francisco
- Imparare la lingua dei segni (anche se non mi serve, al momento)
- Leggere "Guerra e pace"
- Avere un terrazzo pieno di piante da curare (per curare essenzialmente me stessa)
- Vendicarmi con efferatezza di alcuni torti subiti
- Andare a vivere e morire a Parigi

Dieci cose che avrei voluto fare e che ormai non farò più

- Andare sul Machu Picchu (altitudine eccessiva)
- Idem per la Patagonia
- Imparare bene il russo
- Andare in Africa a vedere i leoni liberi (troppo caldo)
- Guidare una bella moto (ho paura)
- Trovare una qualsiasi sintonia con mia madre ed esserne felice (è morta)
- Fare il sub (pressione eccessiva)
- Fare la fotografa naturalista (troppo vecchia)
- Pattinare sul ghiaccio (non ho più né il legamenti né l'equilibrio necessari)
- Entrare in un tubino rosso scollato