Bicocca

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Fausto Melotti, La sequenza, Milano
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mercoledì 5 ottobre 2022

Carnet de voyage - Parigi #03 - E i curdi?

Al camposanto, volendo, si imparano sempre molte cose. Per esempio si ripassa un po' di storia, sulla tomba di Ahmet Kaya, popolarissimo cantautore rivoluzionario curdo. Strenuo difensore dei diritti umani, le sue canzoni furono costantemente censurate dal regime turco, che lo accusava di essere un membro del PKK, il partito dei lavoratori del Kurdistan. Nel 1999, quando Erdogan era ancora sindaco di Istanbul,  Ahmet Kaya si rifugiò a Parigi dopo aver subito minacce di morte per aver dichiarato di voler cantare le sue canzoni in curdo. Venne condannato in contumacia a tre anni di prigione per "propaganda separatista". Qui morì per una crisi cardiaca nel novembre del 2000, a soli 43 anni. Nel 2021 la sua tomba fu profanata, coperta di ingiurie, l'immagine scolpita del suo volto fu presa a martellate. Al Père Lachaise, Kaya dorme oggi in compagnia di altre personalità curde esiliate in Francia, come il politico curdo iraniano Abdul Rahman Ghassemlou  o il regista curdo turco Yılmaz Güney. 

Memo: per superare il veto della Turchia all’ingresso di Finlandia e Svezia nella NATO, Recep Tayyip Erdogan ha chiesto che i due paesi ritirino le protezioni concesse ai dissidenti curdi, e che avviino le procedure per l’estradizione di decine di persone che la Turchia considera appartenenti a organizzazioni terroristiche

Ah, già, Erdogan...



venerdì 26 agosto 2016

Deutschland über Alles # 02 - Il senso dei tedeschi per la DDR

Allora. A cavallo degli Anni ’90, la Germania dell’Ovest si è comprata ai saldi quella dell’Est, con annessi e connessi. I tedeschi dell’Ovest han detto a tutti che quelli dell’Est erano dei pezzenti, tutti spie (o quasi), schiavi e/o complici della Stasi, ignoranti e lazzaroni, mantenuti dallo Stato, arretrati culturalmente. Eroe chi scappava, vile e comunista (d’apparato, anche…) chi non ci provava.
Da quando hanno picconato il Muro sia quelli dell’Ovest sia quelli dell’Est si sono prodigati più o meno amichevolmente per cancellare ogni traccia del passato, demolendo edifici (soprattutto) e attribuendo ogni elemento funzionale all’etica socialista reale, brutta e cattiva. I tedeschi dell’Ovest hanno cambiato persino l’aspetto di quelli dell’Est, li hanno impiegati in posti statali (nelle scuole, per esempio… erano bravi insegnanti di tedesco e matematica), oppure li hanno messi a produrre in fabbrica, assimilandoli ai turchi. Con un generico sguardo commiserevole li hanno tenuti lontani dai posti di comando. Fino alla Merkel, che avrà piazzato i suoi sodali là dove era utile. E si sa, una buona dose di esperienza organizzativa serve sempre.

Insieme poi, i tedeschi tutti hanno pensato, secondo un rodato ingegno capitalista, di far fruttare il marchio DDR, con musei in quasi ogni città dell’Est, possibilmente nella locale sede dell'Ufficio del Ministero di Sicurezza dello Stato, nei quali hanno esposto merce di vario genere che a noi ricorda quella degli Anni ’50 invece risale agli Anni ’80 (sai che reperti!), foto di Honnecker che stringe la mano a Gorbaciov, esempi di lugubri sistemi di controllo dei media, parrucche, pance e occhiali finti per i pedinamenti della polizia segreta, oggetti da campeggio, timbri postali, materiale di reclutamento per informatori, bandiere, ricostruzioni di celle per interrogatori, cassette Basf per registrazioni telefoniche, pezzi di muro di Berlino, caschi asciugacapelli da parrucchiere, masserizie di uso comune, tappeti di lana inneggianti all'unità dei lavoratori (questa sconosciuta). Danno anche un finto visto d'entrata nella DDR e per soli 2 euro (!) aggiuntivi, si possono scattare fotografie. 

A margine delle istituzioni, singoli privati vendono in strada maschere antigas e colbacchi, indumenti militari, spillette, robe così. Saggi del regime a pochi euro, disponibile per tutti. Ai turisti noleggiano persino le Trabant. O le espongono, insieme a pezzi di motore.

Ché si sa, il comunismo è sconfitto, l’individuo trionfa e soprattutto pecunia non olet.

Capitolo a parte, che merita non poco, è quello dell’edilizia. Dato per certo che i “casermoni socialisti” sono brutti, dove è stato possibile (o conveniente o necessario) li hanno rasi al suolo. E continuano a farlo. Oppure li hanno dipinti con colori pastello, per cancellare il “grigiore”, ideologico prima che cromatico. Perciò, sfrecciando in bicicletta a Dresda si vedono enormi ruspe che inghiottono una roba di 6/7 piani di cemento armato con finestroni quadrati. Chissà chi ci ha lavorato o abitato (dal punto di vista architettonico la funzione è spesso indistinguibile). Oppure, appena fuori dal centro di Lipsia, si attraversano quartieri un po’ anonimi, i famosi blocchi abitativi che, per quanto orripilanti, non hanno niente a che vedere con alcune periferie italiane (il milanese quartiere Gratosoglio ne è un esempio).
Qualcosa è rimasto in piedi per disattento rispetto per passato, per criteri economici o perché neanche le bombe strategiche degli Alleati ne hanno avuto ragione. Non si sa a chi credere. In ogni caso, in un paio di decenni il processo di rimozione, almeno all’apparenza, ha funzionato.

Le persone, invece, quelle son difficili da cancellare. Soprattutto i vecchi (tanti, forse perché siamo in estate). Hanno proprio uno sguardo diverso, una postura diversa, un modo di vestirsi diverso. Hanno anche un tedesco diverso, più asciutto, più aspirato, più aggressivo. Sono gentili, ma l’atteggiamento è ancora quello di chi non si fida (sempre i vecchi). Efficienti nelle loro professioni, pubbliche o private, ma poco inclini alla chiacchiera. Forse è anche un retaggio prussiano. Così, a prima vista, non sembrano immensamente più felici di quando li ho incontrati nel 1988. I colori sono gli stessi. Molto ingenuamente, mi chiedo se bastino le ruspe e l’ostensione delle reliquie sovietiche per costruire una società felice, ammonendo i posteri. Se omologare il consorzio umano buttando via tutto, si possa definire progresso. Così, dal Baltico a Lubecca, dal Magdeburgo a Usedom, il rigore formale si accompagna a una strana idea di rinnovamento, una passata di candeggina su trent’anni di storia. Adesso, nonostante l’economia fiorente e la disoccupazione al 6,1%, la posizione dominante e tutto il resto, in Germania come ovunque i poveri sono davvero poveri e i ricchi davvero ricchi. I giovani neanche lo sanno, com'era solo pochi anni fa. E poi ci sono gli immigrati: appunto, dove sono? Non qui.

(Berlino, è un caso a sé. E quindi richiede una riflessione a sé.)


Lipsia
Dresda

Berlino

Radebeul
Museo della Stasi, Lipsia
Berlino
Museo della Stasi, Lipsia

giovedì 7 luglio 2016

Rette parallele

Davanti all'Itis Galileo Galilei (così il titolo enorme sulla facciata) i ragazzi sono appollaiati sugli scalini, con le facce un po' nervose. Chi rilegge una pila di fogli, chi fuma, chi chatta freneticamente la sua ansia e la sua stanchezza.
Alla fermata dell'autobus di fronte, una coppia bianchiccia ed entusiasta, zainetto in spalla, chiacchiera a voce alta: ridono, i due, 
si abbracciano, si raccontano.
È finita, sì. La vita abissale si spalanca davanti a loro sul quel marciapiede e li inghiotte mentre scoppiano di felicità o forse solo di sollievo e chissà che cosa sperano o che cosa sanno o che cosa vogliono. Magari solo un pezzo di pizza e una dormita infinita. Un passo a due, un po' di fantasia. Dietro l'angolo, oltre la cancellata, c'è il giardino di un altro istituto, che confina con il Galilei. Altre facce, ma un po' storte, un po' deformi, molte assenti. Occhi annacquati, denti marci, mani grosse. Sono ragazzi anche loro, che non saranno mai maturi, né elettrotecnici, né ottici, né grafici, né al Galilei né altrove. Sono lì, seduti sulle sedie a rotelle o sulle panchine nella penombra, con altri giovani accompagnatori (anche loro con il cellulare e la sigaretta fra le dita). Aspettano non si sa cosa, forse solo un filo d'aria, prima di tornarsene dentro il cratere anonimo e ignorato della loro diversità. Rette che non si incontreranno mai. Vado oltre, perché attraverso ci sono già passata. E penso per un secondo alla mia maturità, gonnellina a righe, maglietta bianca, orologio prestato. La mamma, lì fuori, che mi aspettava, nascosta, quasi glielo dovessi, tutto.

lunedì 7 settembre 2015

Bitmap # Percezione/02

Non ricordare nulla, ricordare qualcosa, ricordare tutto.

Monkey World Ape Rescue Centre, Wareham, Dorset, UK (agosto 2015)

venerdì 22 maggio 2015

La California quella vera

La mia mamma aveva una Dyane. Verde. Gliel'hanno rubata e lei ne ha comprato un'altra. Arancione. Ho imparato a guidare con il cambio accanto al volante, con i finestrini che si ribaltavano all'esterno, per metà. Oggi, leggendo orearovescio.wordpress.com/2015/05/18/due-cavalli-un-po-bastardi/, mi sono ricordata di un viaggio io e lei, da sole, all'inizio di agosto di tanto tempo fa, lungo l'Aurelia, da Livorno in giù (non esisteva allora la A12...). Papà, i nonni e mia sorella davanti, in una macchina "normale". Noi con calma, a 90 all'ora, macchina carica di masserizie, partite dopo e arrivate con il buio. Sono stati anni terribili, i miei vent'anni, ma ricordo sorridendo Cecina, e La California (ridemmo tanto... "Mamma, andiamo in California!") e poi una deviazione a Bolgheri, i cipressi, Castagneto e Donoratico... piano, in coda, e poi San Vincenzo. Fu quello, forse, il nostro unico viaggio. Venticinque anni dopo, o forse più, il viaggio insieme è stato molto più lungo e l'ultimo. Senza nemmeno la Dyane.

mercoledì 6 maggio 2015

Il momento del commiato

Argomento difficile, quello dell'addio. Galleggia sulla mia coscienza da un po', mentre con il tempo annovero saluti definitivi a cose, persone, luoghi, idee, sogni, più o meno importanti.
Si comincia da piccoli, piccoli strappi all'abitudine. Basta scuola, basta compagni di banco, basta bicicletta con le ruote, basta fiocco rosa al collo. E poi è una sfilza di interruzioni. Basta amica  F. Basta appartamento di via Poetessa, dove non avevo un metro quadrato tutto mio, ma che è l'unica casa che sogno ancora. Basta tuffi pazzi con i miei cugini, basta isola Palmaria, basta baci strampalati con B., occhi verdi e ignorantotto, che mi spiegava matematica sotto un albero di nespole (basta nespole). Basta liceo, con tutti suoi drammi e le sue notti in piedi a studiare. Basta Venezia, basta primo amore disperato. Basta famiglia. Basta Donegal, scoperta terminata. Basta nonni. Basta correre. Basta moto. Basta tenda. Basta mamma. Ultimi saluti improvvisi e del tutto inconsapevoli a uomini e donne e oggetti che non avrei rivisto mai più: legami sciocchi, legami meno sciocchi, luoghi bellissimi e luoghi bruttissimi, negozi spariti, piscine chiuse, spiagge erose, cinema rasi al suolo, amicizie evaporate, compagni di sventura, scrivanie abbandonate, tutta roba che pensi di rivedere domani o martedì prossimo o l'estate dopo e invece niente. E gli addii quelli voluti, vere e proprie liberazioni. Addio letto d'ospedale n. 12. Addio direttore infame che mi ha dato della scema per quattro anni. Addio parenti serpenti. Addio libri di trigonometria (addio seno e coseno!). Addio impermeabile beige degli inverni tristi. Addio capelli lunghi. Addio zoccoli. Poi ci sono gli addii allo stato delle cose. Quelli sono i più infidi. Percepisci che qualcosa è cambiato per sempre, e spesso in peggio. Avverti la modifica, quella definitiva: la resa. Non scii più. Non lavori più. Non ami più (quella persona, quel posto, quella cosa). E poi non ci pensi più (a quella persona, a quel posto, a quella cosa). Non ci credi più. Un addio a consistenti parti di noi stessi. Soppiantate da nuove facce, nuove guerre, nuove onde, nuove voci, nuovi dolori, nuove letture, nuovi saperi, nuove abitudini, nuove case. E, ancora, nuovi addii, mai ultimi, mai più primi.

martedì 8 luglio 2014

Dieci cose che avrei voluto fare e che ormai non farò più

- Andare sul Machu Picchu (altitudine eccessiva)
- Idem per la Patagonia
- Imparare bene il russo
- Andare in Africa a vedere i leoni liberi (troppo caldo)
- Guidare una bella moto (ho paura)
- Trovare una qualsiasi sintonia con mia madre ed esserne felice (è morta)
- Fare il sub (pressione eccessiva)
- Fare la fotografa naturalista (troppo vecchia)
- Pattinare sul ghiaccio (non ho più né il legamenti né l'equilibrio necessari)
- Entrare in un tubino rosso scollato

martedì 24 giugno 2014

Il futuro passato

La questione è assimilabile al mal d'Africa. Chi è stato in Irlanda per un po' lo sa: patisce vita natural durante quella sotterranea e insidiosa nostalgia di un posto che ovviamente non esiste più, se non nel proprio vissuto, più o meno aspro. Funziona così. Pensi sempre di tornarci l'estate prossima, o in giugno, quando il sole non tramonta mai, soprattutto pensi sempre di tornare lassù, in Donegal, a Killibegs, a vedere i pescherecci e a sentire la puzza del pescato e le onde grigie e cattive e il vento e il verde. Ma le estati, gli anni, i decenni passano e, se tutto va bene, ci torni una volta o due, e ti perdi fra strade irriconoscibili, paesaggi geneticamente modificati, odori e colori con sfumature che non appartengono più alla tua memoria stratificata, e che pure sembrano dirti ancora qualcosa. Persone dai volti nuovi. Nuove razze, nuove vite. 
Nei pomeriggi invernali, allora, quando la malinconia se la batte con la ragione, ti connetti a www.liveireland.com (Radio1, Irish Traditional & Folk), così, solo per sentire un po' di musica e due parole dall'accento fortissimo e convincerti che il teletrasporto emotivo esiste davvero. Poi guardi le foto di quella volta, canticchi il reef velocissimo, guardi il prezzo del traghetto, quest'anno ci vai. Ma da Cherbourg è lunga, se l'oceano è nervoso si vomita per 20 ore. Lasci stare. 
Quando succede qualcosa di cui i giornali parlano, ad esempio oggi tutti gridano che l'Irlanda è prima nella lista dei paesi più vivibili al mondo (segue elenco delle motivazioni, che è totalmente inutile, perché non c'è nulla di razionale, c'è solo la smania struggente di essere là e non qua, un vero e proprio futuro passato), allora si accende di nuovo il led del desiderio. A questo si aggiunge il mood letterario. Cerchi di starne alla larga, ma prima o poi ci ricaschi (tanto gli scrittori irlandesi sono tanti e prolifici e molto simili). Stavolta è il turno di Joseph O' Connor, fratello della cantante pelata: ha scritto tante cose belle e, a mio giudizio, anche bene ("La fine della strada", per esempio, ma prima anche "Cowboys and Indians", "Il rappresentante", "Stella del mare", "I veri credenti" e via così). La sua raccolta di racconti "Dove sei stato?" mi sta tirando giù, sempre più giù, perché è tutto così vero e così amaro e così irlandese e così mio. Quindi vado piano, per farlo durare, per stare male ma per bene, così poi si può risalire e aspettare la prossima stagione e la prossima scusa per non sapere che tutto cambia e che dentro di me non cambia mai niente.

mercoledì 7 maggio 2014

A-social

L'esperienza di far parte di un mondo in comunicazione continua, anche non voluta, è per me faticosa. La mia naturale ritrosia, la riservatezza, il gusto della scoperta, il libero arbitrio, anzi, il concetto stesso di scelta - che mi appartiene caratterialmente - sono messi a dura prova ogni giorno. Dalle continue proposte di Amazon di prodotti la cui traduzione ho cercato su Google per lavoro, alle offerte per vibratori o allungapene o creme di bellezza, ai viaggi in ogni angolo del mondo e in strutture di ogni fascia di prezzo (!), alle finte mail che mi chiedono il numero di carta di credito per verificare non so che: gli spunti per scrivere questo post non mancano e peccherebbero anche di poca originalità, lo so. Ma ultimamente è successo, tardivamente, quello che è capitato a moltissimi fruitori dei social network, di ogni genere: mi hanno cercato i vecchi compagni di classe! Una classe di persone che a mala pena si sono rivolte la parola per 5 anni e che se la vorrebbero rivolgere adesso con un piatto di lasagne davanti, per vedere l'effetto che fa. Non mi è bastato non essere utente di Facebook.
Si comincia con una telefonata (sono ancora sull'elenco, ahimé). Stiamo organizzando una rimpatriata (mioddio che brutta parola...) ecc. Presa alla sprovvista, all'ora di cena, soffocata dalle incombenze, balbetto senza entusiasmo un "ah" e, improvvida, fornisco il mio indirizzo e-mail alla squillante interlocutrice, oggi avvocato.
Segue una prima comunicazione dell'organizzatore, che spiega come l'idea sia nata dai soli cinque individui che dopo decenni sono ancora in contatto.
Colta meno in contropiede della prima volta, rispondo garbatamente che sono contenta di risentirlo (eravamo compagni anche alle elementari, diciamo che non sono prevenuta), ma esprimo le mie perplessità sul senso di spendere una serata  con persone che non vedo da così tanto tempo e di cui non ho sentito la mancanza. E che, parimenti, non hanno sentito la mia, di mancanza. Altrettanto cortese, l'organizzatore mi invita a riconsiderare l'iniziativa in modo positivo e mi assicura che mi terrà aggiornata sulla ricerca ("che è più divertente della scoperta"). Cosa ci sia di divertente nello scovare pezzi di passato remoto con cui non si ha più nulla a che fare da un'eternità, non lo so.
E da quel momento, signori miei (come dice il giovane Renzi), si innesca lo spamming, quello vero. Mai diretto a me personalmente, però: piano pianino gente di cui non ricordo nemmeno il nome (sono sconcertata: buio pesto! Com'è possibile che non abbia ritenuto che pochi volti?), "risponde a tutti" dicendosi felicissima e curiosa, ben trovato a Tizio, ben tornato a Caio...
Gira anche un file di Excel con nomi e cognomi, indirizzi e-mail, cellulari, tutti dati sensibili che mi spaventa anche solo leggere.
In casa l'evento suscita un dibattito critico. Qualcuno sostiene che io mi vergogni "della mia vita di merda" (ma figuriamoci! con il mio gradiente di superamento delle prove anche l'amministratore delegato di una certa compagnia di assicurazioni o il magistrato che partecipano a questo assurdo gioco scomparirebbero in un secondo! Mi piace vincere facile...). Qualcuno si stupisce che non provi nemmeno un po' di curiosità per sapere com'è andata a finire (no, non la provo). Qualcuno dice, più verosimilmente, che non mi va di elencare la sfilza di "inciampi" che mi sono capitati, a fronte di successi magari inaspettati. Insomma, mica tanto inaspettati: la mobilità sociale di questo moribondo paese è quella che è: siamo rimasti tutti al nostro posto, chi su e chi giù dalla scala. Amen. Io, per onestà, aggiungo alle motivazioni che non voglio rivedere una certa persona, che però al momento è ancora nella lista dei dispersi, per fortuna.
Sono fatta così, caccio via dal mio circolo sentimentale privatissimo chi mi ha ferito, e il bando è senza scadenza. Nella migliore delle ipotesi perdo l'interesse, ma anche il sempiterno risentimento ha la sua importanza, lo ammetto. 
E così si va avanti, per settimane. L'unica compagna/amica con cui sono in contatto (persa e ritrovata) condivide il mio pensiero e quindi ogni tanto ci scappa una risatina. Lei si ricorda di un tale che oggi è violinista, io trovo due vecchie foto in cui non riusciamo a identificare almeno sei o sette persone, e ci sembra che ci sia anche un intruso: quello piccolo, moro, non era di terza? Emergono brandelli di notizie e di ricordi, gente incontrata per caso in metropolitana, o in un negozio, negli anni: una forse ha adottato un figlio, quell'altra ha preso anche la maturità magistrale e insegna alle elementari, due si sono sposati e poi separati, molti sono diventati fenomeni, ovviamente (date  le premesse di ceto), e quello che mi piaceva ora lavora in banca, è ancora un bell'uomo. L'ho riconosciuto in un video su Youtube (allegato alla sua mail) solo dal suo sguardo. Aspetto ancora che "mi faccia sapere"... La ciellina invece è ancora molesta; la secchiona è finita immeritatamente a fare un lavoro d'archivio, ed era così brava... poverina. C'è anche il solito polemico, che offende il mittente di una mail in cui in calce c'è l'invito a versare il 5 per mille a un'università privata. Già, perché a parte pochissimi, tutti scrivono dal loro indirizzo del lavoro: isitituti bancari, ministeri, aziende varie, studi legali, studi di architettura, studi non si capisce di che, università. I @gmail.com e gli @yahoo.it sono due o tre. 
Ormai la data è certa, come il ristorante e tutto il resto.
Ieri ho ricevuto la prima e unica mail scritta a me personalmente (a parte quella dell'organizzatore): la ragazza che sedeva nel banco davanti mi scrive "per convincermi a partecipare" (sic!) e per chiedermi i riferimenti dell'unico che davvero non sono disposta a rincontrare, a nessun costo. Per educazione butto lì due righe: no, non so che fine abbia fatto (o forse sì, ma direi che non importa, a questo punto) e no, non vengo, preferisco ricordare tutti com'erano. 
Da vivi, mi vien da dire.


domenica 27 aprile 2014

Un bel dì vedremo

Teatro La Fenice, qualche giorno fa. Volevo solo entrare a godermi il rosso e l'oro e l'azzurro della volta... Ma c'erano le prove della Madama Butterfly, in programma la sera. Se vuole... può assistere. Ho voluto. Due ore di tumulto e una struggente malinconia che mi ha ricordato una voce che non canta più e che solo in quel modo comunicava con la mia parte buona e intatta, mille anni fa.
Un po' per celia e un po' per non morire, proprio così. Il coro muto ha finito il lavoro. "Bravissimi!", ha detto il direttore (Giampaolo Bisanti), con addosso una maglia scura, "Grazie signori, perfetto!". Perfetto.



mercoledì 16 aprile 2014

Quello dal cuore urgente

È passato più di un anno. Il tempo necessario perché ne possa parlare senza piangere. Quando Enzo Jannacci è sceso dal tram, pioveva. La mattina dopo, mentre andavo a fare la spesa, ho fatto una deviazione per passare davanti alla clinica Columbus, per salutarlo. Era presto, un po' di gente della mia età e anche più vecchia arrivava con l'ombrello e i mazzi di fiori, l'anima sfatta, proprio come me, che invece mi sono fermata lì di fronte, in macchina, senza scendere. Quando ci penso sento il male che torna su, anche se non era una persona a me cara, nel senso comune. Ma era la mia unica piccola infanzia buona, il primo 45 giri che mi ha regalato mio papà, "Ho visto un re" e il sovversivo lato B, "Bobo Merenda" (meglio non raccontare, meglio). E poi "Vengo anch'io", cantata a squarciagola nei secoli dei secoli, e "Vincenzina e la fabbrica", e "L'Armando", e "Giovanni il telegrafista" (con quell'aggettivo bellissimo, "ellittico"), e poi lo strazio infinito di "Io e te". E di "Ti te se no".
No, riesco ancora a parlarne senza piangere. Ma glielo dovevo, 'sto pensiero.

Giovanni telegrafista, quello dal cuore urgente,
non disse parola, solo le rondini nere
senza la minima intenzione simbolica
si fermarono sul singhiozzo telegrafico
Alba è urgente.

mercoledì 2 aprile 2014

Hey Jude... Non peggiorare le cose

Lo ammetto: a me i cani proprio non piacciono. Li guardo malvolentieri, non li tocco mai, non mi ispirano simpatia... Però qualche giorno fa sono capitata sul lago di Caldonazzo. Cioè, ci sono andata in missione per conto della mia felicità. Lì, sulla spiaggetta d'erba, trotterellava una cagnetta di quelle che io definisco "con la pelle". 
I giovani nuovi padroncini non avevano occhi che per lei. Mi sono avvicinata (!!) e ho chiesto se potevo fotografarla. I padroni dei cani li amano e ne sono orgogliosi come se fossero dei figli, si sa. Mi fa sempre specie, ma è così. Ho chiesto alla ragazza come si chiamasse 'sto cane. "Jude", mi ha risposto. E io, ovviamente: "Ah, come Hey Jude". 
E qui, la sorpresa: occhi lucidi di gioia, la pulzella mi urla estasiata: "Lei è la prima che l'ha capito! Che bello! Finalmente!".
E io ho tristemente realizzato, nell'ordine, che: 
- i Beatles sono preistorici;
- io sono un Camarasaurus (rettile diviso in compartimenti);
- è giusto che passi da un Volkswagen California a un furgonato perché sto entrando nella terza fase della mia vita, non sono più una Figlia dei Fiori, quasi non sono più neanche una figlia. E quindi mi devo piegare alle comodità del furgonato. Furgonato che mi vien voglia di chiamare "Heyjude", tutto attaccato.
- Don't make it bad.





giovedì 13 marzo 2014

Hanno tirato giù la "clèr"

Mi ha intristito passare davanti alla palestra Contourella, icona della forma fisica anni '80,  e vedere la saracinesca abbassata e un cartello meschino, scritto a mano, che comunica gli orari in cui si possono ritirare i propri effetti personali rimasti negli armadietti. 
Mi ha lasciato un po' di amarezza ma anche di rabbia, pensando agli istruttori che hanno perso il posto (molti, ingenuamente, avevano accettato di lavorarci dopo la chiusura dell'altra sede per sfratto e insolvenza, alla fine dello scorso anno); e per chi altrettanto ingenuamente si era iscritto la settimana precedente immaginando un corpo snello prima dell'estate, a prezzi stracciati. 
Mi ha straniato, ma forse nemmeno tanto, vedere smontato a pezzi un luogo che appartiene al mio scenario di una vita intera. Quante volte ho guardato in su dall'altra parte della strada, sorridendo di ragazze saltellanti e rigenerate, con la musica che rimbombava in strada... Enormi finestroni e corpi asciutti in movimento, immagine di vitalità, di energia, di normalità. Ma anche donne mature e ricostruite, cotonate e nullafacenti, che al mattino si inventavano un ruolo, un obiettivo, un senso, mentre io correvo al lavoro, con i minuti contati. 
Poco a poco chiude tutto, qui, nel quartiere. Si dirà che molto di ciò che chiude era espressione di una società che viveva di superfluo e di consumi, che per muoversi un po' è sufficiente farsi una corsa nello smog sotto casa o un giro in bicicletta. Si dirà che la latteria dove andava sempre anche mia nonna non vendeva più nulla, nemmeno i biscotti (vecchi) e la mozzarella a bagno nel latticello giallognolo. O che il negozio di pellicce, che per giunta ora non sono più di moda, non aveva alcuna ragione di esporre in vetrina quattro visoni morti. E il parrucchiere per signora? A soli quarant'anni il bravo coiffeur ha avuto un infarto e poi non lavorara più... I cinesi, a cento metri, fanno la piega a 8 euro, lui ne voleva 25. 
Non ha resistito, ovviamente, il negozio di sigarette elettroniche, ma quello era un bluff, non c'è da stupirsi. E nemmeno quello di camicie da uomo con il colletto bicolore (oddio!!), che aveva sostituito una banca e che è sfitto ormai da un anno. Una "luce" l'ha presa un'agenzia che procura badanti, con tanto di convenzione con la Regione, figuriamoci! 
O il grande negozio di abbigliamento sportivo, sotto il Contourella: a chi venderebbe più 
i body per l'aerobica? (ma non si dice più aerobica: yogaflex, posturial gym, total body, zumba, GAG... GAG??) 
I vestiti per bambini, quelli sì, che tirano. Chiusa una boutique, ne ha già aperta un'altra, la zona è promettente. Hanno tutte quei nomi assurdi, Favole per gioco, Il mondo di Mimì, Mastro Geppetto, Trenino dei sogni, Bimberia... Al posto di un'oreficeria c'è una "Bottega del bianco", pasta fatta in casa e sughi, sempre vuota. Ha chiuso anche la cartoleria, dai prezzi esorbitanti, dove compravo i rotolini per la Dymo (presente? quelli per scrivere le etichette con le letterine impresse...). Sembra invece che funzionino un centro di bellezza che applica unghie finte (sempre gestito da cinesi) e, bene o male i ristoranti, soprattutto quelli Asian/Fusion/Sushi/Thai. Anche il tabacchino all'angolo dell'isolato accanto, l'ha fatta finita, dopo anni di clientela un po' al limite del gusto e anche del lecito.
Qualcosa dentro di me dice che non poteva durare, 'sto modo di intendere la vita. Poi penso che se le fabbriche chiudono, che fine fa chi ci lavorava? E se la gente è "in cassa", in palestra non ci va, e le cravatte non servono più, anche se di marca. E nemmeno i gioielli etnici confezionati dalle donne buttate fuori a calci dalle aziende e che si sono riciclate in società con l'amica. Persino i bigliettini appesi alla cancellata della scuola, "baby sitter italiana referenziata" (con tanto di striscetta da strappare), sono spariti. Ce n'è uno divertente, di un "Baldo giovane offresi per curare i bambini, tutti i pomeriggi e anche la sera, provatemi!", lì da solo, che invecchia dentro una cartelletta di plastica, strattonata dalle intemperie. Di fronte, stanno tirando su una casa nuova, che schiumeggia sulle macerie di un edificio popolare di inizio Novecento, che era bellissimo. Non ci sarà più il negozio di accessori per auto del piano strada (insegna gialla con scritta nera, ci ho comprato un sacco di roba, dalla batteria alle catene da neve!). Al Contourella cambieranno la destinazione d'uso.
La crisi è come il fuoco, purifica. Poi riscresce qualcos'altro, qualcuno che ci prova, approfittando dell'affitto conveniente. Se pensiamo che il Bomba sia l'ultima spiaggia, siam messi davvero male.