Bicocca

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Fausto Melotti, La sequenza, Milano
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lunedì 17 ottobre 2022

Carnet de voyage - Parigi #08 - «Montjoie! Saint-Denis!»

Grido di guerra dell’esercito dei re di Francia, a partire dai Capetingi. E va bene, andiamo a Saint-Denis. In lista da anni, ma per ragioni di tempo o di scelta, non ha meritato.
Allora, bisogna distinguere: la cattedrale e la cittadina ai margini di Parigi.
 
La cattedrale, vabbè, non richiede le mie quattro righe. La struttura in sé è maestosa, un respiro in ascesa. Poi ci sono la cripta, la necropoli reale. Tutte quelle statue distese sulle tombe, con i leoni ai piedi, le mani giunte, i volti dignitosi. Sembrano tutte anime vere e dormienti. Qui Maria Antonietta si mangia in eterno le sue brioche, Carlo V è ancora convinto che il sole non tramonti sul suo regno, Caterina de’ Medici è lì scomposta e discinta, accanto a Enrico II (morto durante un torneo cavalleresco), nudo e con il capo reclinato all’indietro. Il progetto della tomba è di Primaticcio, ma la realizzazione è di Germain Pilon, che con i ritratti ci sapeva fare. 




 

E adesso l’avanti e indietro lungo rue de la République. Qui c’è “un po’ di tutto”, anzi, no. C’è molto di quello. Quello che scrivono sui giornali, la banlieue, la terra di nessuno, dove vive “la racaille”, le feccia (cit. Monsieur Sarcozy). Abitare nel “93” (cioè nel 93° dipartimento) oggi è uno stigma da cui non si ci lava. Qui sono nati Cherif e Said Kouachy, i due fratelli dell'attentato a Charlie Hebdo, qui vicino viveva Samy Amimour, uno dei kamikaze che si è fatto esplodere al Bataclan. Eppure alle 4 del pomeriggio di domenica vedo solo tanta gente, molti giovani, molti di colore, molte ragazze con il velo, molti tipi strani evidentemente un po’ ai margini. Tutti che passeggiano, fanno compere, chiacchierano (anche fra sé e sé). In 500 metri ho contato almeno trenta negozi che vendono prodotti per capelli afro e migliaia di parrucche, vetrine che espongono tuniche di varia foggia, abiti sportivi, scarpe e poi anche caramelle (e c’è la fila), sotto il bel palazzo della Posta. Persino i manichini sul marciapiede sono neri, sembrano vivi (anche loro, come le statue della cattedrale), a dir la verità. Gli edifici sono dimessi ma raccontano di tempi migliori. Hanno dipinto un bel murale. Tornando verso la fermata della metropolitana scorgo le case popolari e la bruttezza vera, quella che sa di piscio e di miseria. C’è una specie di negozio dove si muovono gli organizzatori orgogliosi della candidatura di Saint-Denis come capitale europea della cultura per il 2028. Ho pensato a uno scherzo, ma evidentemente ci sperano.


p.s: A proposito, nel frattempo Melenchon ha portato 140.000 persone in piazza. Così, per dire... 










 

martedì 11 aprile 2017

Atene # 02 - La compagna dei Greci


Le città sono veramente belle o veramente brutte soprattutto a Natale. A me piacciono le città, tutte. Mi piace esplorarle, capirne il respiro, guardare le facce di chi ci abita, i muri, la metropolitana, la vita. A Natale, se hai il cuore duro, vedi tante cose che in primavera sono più sfumate.

Lungo Eolou, ho immaginato le storie di chi attraversa la strada di corsa, rimprovera un bambino, prega (tanto), chiede l'elemosina.
In realtà, ad Atene, sfinita dallo strozzinaggio tedesco, l'elemosina la chiedono in tanti. E a Natale di più, mi è sembrato. E mi è sembrato anche che fosse un'elemosina più dolorosa, più fredda, più umida, più consapevole e più umiliante rispetto a quella di aprile.
Un Natale scintillante e miserevole. 

La Grecia la stanno ammazzando. Non ne parla più nessuno e nel silenzio assoluto i greci vanno a fondo. Un greco su quattro non ha di che vivere. 

Lungo Ermou, ma non solo, un edificio su tre è vuoto, con le vetrine dei negozi sulla strada ricoperte di scritte e giornali, spesso abitato da fantasmi senza più nulla. Così le incredibili luminarie hanno acceso anche gli angoli più dolorosi. 
Una signora con il cappotto, ben vestita, una sciarpa che la proteggeva dal vento gelido. Seduta su una seggiolina, testa bassa, piattino. Poco più in là, in Evaggelistrias, sotto un platano, un quarantenne con gli occhiali, giaccone blu, aria da ingegnere. Lui sì che mi ha fatto male, non so, forse è questione di stereotipi: testa bassa, bicchiere in mano. E così via. Una giovane perbene che vendeva scarpine per neonato fatte a maglia, e sferruzzava. L'ho ritrovata in Adrianou la scorsa settimana, le scarpine ormai di cotone, insieme ad alcune bamboline. Giovani acrobati in piazza Syntagma. Anziani che vendevano pannocchie arrostite. Oggi, alcuni offrono sul marciapiedi davanti a Thissio ciò che resta della loro vita di sette anni fa: scarpe ancora decenti, maglioni usati ma belli, elettrodomestici funzionanti, quaderni di scuola avanzati, abiti, strumenti musicali, orecchini, tavolini, cose tutte di cui a un certo punto si può fare a meno, per pagare la spesa.

Molte case, soprattutto in centro, sono abbandonate. Case anche belle, dell'inizio del Novecento, con balconi in ferro battuto. Sui davanzali ancora qualche vaso. I muri ricoperti di graffiti, vecchie pubblicità, un decoro sui generis. Ciarpame vario, scacchiere rotte, ferramenta.





Erodoto racconta che Serse chiese a Demarato, figlio di Aristone, che lo accompagnava nella spedizione contro la Grecia, se i Greci avrebbero opposto resistenza ai Persiani. Demeraro rispose che "da sempre la povertà è compagna dei Greci, mentre la virtù è un acquisto successivo, frutto della saggezza e di una legge severa: e grazie alla virtù la Grecia si difende dalla povertà e dall’asservimento".
Sarà.



Ma questa sì, è la parte scura e brutta della Grecia. La terra bruciata della crisi, l'urlo dell'indigenza. La gente che prova a sorridere, nei negozi e nelle botteghe, anche con dentature che risentono della situazione. E sorride sempre meno, a dir la verità, nemmeno a beneficio dei turisti. 

Dall'alto, l'Acropoli osserva.





giovedì 14 luglio 2016

Basta la salute

Ci sono a volte incredibili giornate di sole e di cielo. Allora certi abbracci pungono ancora
di più. Non c'è nulla di irreparabile, lo sappiamo già tutti. Salvo rari casi, perdere il lavoro non è una malattia. Una prova, quello sì: di resilienza, di coraggio, di reazione.
Quasi tutti ce la facciamo e ce l'abbiamo fatta, anche quando sapevamo che ben che vada si peggiora (e non poco). Quindi se oggi io e L. ci siamo abbracciati, proprio come dieci anni fa, di questi tempi, non devo (non dobbiamo entrambi) sentirci persi, perché non ci siamo persi in dieci anni e non ci perderemo mai. Funziona così. Cambieremo di nuovo le nostre abitudini, ma che importa? Mangeremo sempre quel panino ridanciano, lo raggiungerò all'una in qualche angolo della città. Questo è la solfa che mi canto attraversando il parco in bici, lentamente, con quell'azzurro beffardo sopra di me. E che sarà mai? Ci vediamo a settembre, certo. Troverà una soluzione come tutti e nel frattempo stasera guardo il dvd che mi ha messo nella borsa, sguardo basso, bassissimo ("Alla ricerca di Vivian Maier", di J. Mallof e C. Siskel). 





martedì 8 dicembre 2015

Giovani adulti

Fra una fresca e l'altra, mi guardo intorno cercando di capire come funziona il microcosmo generazionale che non mi appartiene più. Finisce che inciampo in certe figure, che si riassumono più o meno in modelli, come quelli usati dai sarti: il tempo ritaglia intorno ad essi una vita italiana, nell'età in cui una volta si teneva già famiglia (o si era tornati dalla guerra, per dire...). Ho incontrato questi giovanotti, mi sono fatta raccontare le loro storie, ho misurato di nascosto il raggio del loro mondo. 


Fabio, caldaista
Ha 21 anni è di Corsico, vicino a Milano. Quando ne aveva 11 la madre se n'è andata di casa con un altro signore, lasciandolo con il padre e il fratellino di tre anni minore di lui. Dopo qualche tempo di convivenza infruttuosa, i ragazzini sono stati affidati alla nonna paterna, sola, pensionata, che li ha accuditi meravigliosamente. Portato a casa il diploma di perito meccanico (voto: 100 e lode), Fabio inizia a lavorare part-time in un'azienda che installa a manutiene caldaie. Al pomeriggio (e di sera) segue un corso per caldaista, per due anni. Al termine, il suo contratto da apprendista viene per questo convertito in uno a tempo indeterminato, anche perché: a) è bravissimo; b) il tecnico di 35 anni a tempo indeterminato che gli ha insegnato il mestiere viene licenziato perché costa 200 euro in più al mese, più contributi e tredicesima. Che si sa, in un anno, son soldi. Consapevole di questa fortuna, Fabio sgobba come un mulo, anche il sabato, anche in agosto, quando invece delle caldaie, installa condizionatori. Ma Fabio ha un altro progettino, incartato e conservato nello suo scomparto "sogni": fare il disegnatore meccanico, lavoro per il quale ha studiato a scuola. Ma il tempo è quello che è. E quindi, la domenica, versa un quarto del suo stipendio a un architetto che gli sta insegnando a lavorare in Autocad, in attesa della certificazione che potrebbe valergli un posto di lavoro da qualche altra parte. La ragazza ce l'ha, ma è una "figlia di papà", che richiede "troppe energie e troppi soldi" e, insomma, la tiene ma... Fabio è bellissimo, ha due occhi neri pazzeschi, un fisico da statua, un'intelligenza e una determinazione invidiabili. Gli piacerebbe anche comprare una casetta dove vivere con la nonna, ma non vuole esporsi troppo e poi, dice, la nonna è vecchia. Già. Si limita a fare la spesa al sabato sera, dopo il lavoro, a pagare le bollette, a mantenere il fratello (prossimo al diploma), ad adorare la vegliarda vicemamma. Insiste a sperare.

Francesco, impiegato ragioniere
Ha 29 anni, vive in un paesotto alle propaggini di Milano, figlio unico, abita ancora con mamma e papà. Dopo il diploma si è iscritto a Economia, ma non faceva per lui (troppo difficile?). Il padre gli ha trovato un posto da contabile nell'azienda di imballaggi di proprietà di un amico. Ci lavora da nove anni, da solo, senza colleghi. Fatture, bolle di accompagnamento, dare e avere; vicino a casa, alle 5 è fuori. I genitori, se ritarda mezz'ora, gli chiedono dov'è stato, cos'ha fatto. Non è un'aquila, anzi. Forse ha anche qualche problemino, a dir la verità. Però ha purtroppo anche la consapevolezza di vivere in una gabbia (sic!) e ovviamente vorrebbe volare via. Non lo fa per non addolorare i genitori o forse soltanto perché sa di non esserne capace. Chissà. Comunque sbircia fra una sbarra e l'altra, fa spuntare solo il becco della sua curiosità, annusa l'idea di migliorarsi, di scoprire un mondo "più dinamico", dice, più stimolante; e forse non sa neppure lui cosa vuol dire. Guarda l'architettura nuova della Milano "rinata" (così sostiene il vicesindaco), senza capire che cos'è bello e che cos'è brutto, cogliendo solo l'energia di un futuro a lui inaccessibile. Lo osservo: è davvero bruttino, si veste anche in modo approssimativo, viaggia con una borsa e un computer, mentre sorride educato scopro che gli manca anche un premolare. Insomma, si capisce che resterà dov'è, immaginando ogni tanto di vivere nelle (brutte) residenze Libeskind, che ammira dal basso di tutto. 

Antonio, l'insegnante vincitore di concorso 
Ha 28 anni, è nato vicino a Palermo. Due lauree, con la lode. Grazie a un punteggio esorbitante, guadagnato con pubblicazioni e supplenze, viene catapultato con un incarico forse annuale in un prestigioso liceo classico di Milano. Nel frattempo, ottiene l'assunzione a tempo indeterminato, in un altro istituto. Accetterà, a fine anno. Per ora si tiene le tre classi in cui insegna italiano e latino. Ha un corpo minuto, un accenno di barba, capelli già in procinto di prendere altre strade. Un accento fortissimo, che accompagna un eloquio gigantesco, a voce bassa; è un piacere ascoltarlo. Persino un accenno di ironia, ma proprio pochissima. Esempio preclaro del bravo giovane studioso, meridionale, che ce l'ha fatta a dispetto di tutto. Trapiantato nella nebbia (non deportato, come si usa dire a sproposito, di questi tempi), non ha perso un minuto di lezione. Con il pulloverino chiaro, la sciarpa già in ottobre, nonostante l'autunno caldo, e il suo aspetto minuto, umile. Troppo umile. Ha il complesso dell'età ("sono giòvane") e della provenienza: ecco perché non ingrana con gli studenti. Durante le sue ore questi beceri mangiano, si truccano, telefonano, parlano, scattano fotografie con il cellulare. Lui li riprende, nell'ostilità e nella derisione generale. "Cerco di portare ordine e per questo sono inviso", dice, con quell'"inviso" che già da solo denuncia il personaggio, che non registra alcuna assunzione di responsabilità. Fino a un mese fa la mamma gli preparava gli arancini, oggi è vittima della crudeltà di sedicenni dai modi animaleschi, che evidentemente non riesce ad appassionare né a intimorire. Vorrebbe essere molto e non è niente, le sue proposte cadono nel vuoto, restano solo i voti spelacchiati e ingiusti che assegna trincerato dietro linee guida ministeriali, che gli consentono di esercitare il riflesso di potere che vorrebbe avere. E intanto il tempo passa e lui cresce.




mercoledì 25 febbraio 2015

Leggere e pensare

A margine del dibattito se Mondadori debba o no acquistare RCS, sono moltissime le considerazioni che nascono e popolano siti, blog e compagnia di giro. 
Per esempio, Umberto Eco su Repubblica dedica più attenzione alla preoccupazione per il monopolio dello Strega che non al problema del numero di lettori in Italia, che si sta sempre più erodendo (in linea con il precipizio etico e culturale di questo Paese). Sette italiani su dieci non leggono mai, preferendo evidentemente trascorrere il proprio tempo su fb o in altre forme di ricreazione.
"Un gruppo talmente potente (Mondadori) è una minaccia per la libertà di espressione. In termini di libero mercato è vero che spesso le concentrazioni sono economicamente inevitabili, ma il sistema rimane sano quando si attua ancora una concorrenza tra concentrazioni diverse. Ma quando esiste un gruppo più potente di tutti è la libera concorrenza che entra in crisi", dice Eco. Di parere contrario Busi, ma si sa, Busi è così. 
Quello che mi stupisce è il silenzio di Eco e dei suoi sodali su Amazon e sulle sue politiche, sul significato della lettura oggi, sulla diffusione (vertiginosa negli USA, molto meno importante in Italia) del libro elettronico, sulla figura del lettore che oggi è stato promosso ad autore e/o critico letterario, scalzando l'intermediario editore/editor/critico. La rivoluzione, per come la vedo io, sta nel fatto che il giudizio non si forma più nella patria di chi "crea" ma in quella di chi "fruisce" un'opera letteraria e questo cambia tutto lo scenario. Per esempio, il proliferare di opere autopubblicate (e la qualità? è demandata solo al passaparola?), o la strabordante pubblicazione di titoli illeggibili, anche di autori conclamati ma sostenuti da un marketing al limite della decenza (vedi il passaggio da Fazio ecc.), non meritano un'analisi un po' più approfondita, che affianchi il timore del monopolio editoriale? Di quale monopolio stiamo parlando? Ed è l'unico? E poi, quanto incide il prezzo della fruibilità? 
Segnalo questo intervento di Oliviero Ponte di Pino, per chi fosse interessato. Che poi, di cultura si potrebbe anche mangiare. O no?
http://www.illibraio.it/le-quattro-grandi-guerre-dei-libri-183131/ 

martedì 30 settembre 2014

Incredibile

Non l'avrei mai detto. Sono d'accordo con D'Alema. Nella vita può veramente succedere di tutto.

mercoledì 21 maggio 2014

Europa chi?

Sarà anche un derby fra l'Ebetino e il Forsennato, con il Pregiudicato (vecchio e biascicante e stancamente ripetitivo che, se non fosse per il rancore che gli porto per aver distrutto il mio Paese, ieri mi avrebbe anche fatto pena). Ma a me sarebbe piaciuto sentir parlare un po' più di Europa, di proposte (non soluzioni, perché credo che sia difficile parlare di soluzioni) per l'immigrazione, di strategie economiche, del Trattato di libero scambio Usa-Ue, di energia, di ambiente, di istruzione, di giovani. Avrei voluto ascoltare idee, motivazioni, richieste. Avrei voluto capire che cosa vogliamo per i nostri figli, non solo italiani (e disperati), ma anche francesi, greci, portoghesi e sì, anche tedeschi. Perché l'accelerazione violenta degli ultimi dieci anni ha fatto saltare tutte le coordinate, perfino ideologiche, innescando conflitti a lungo termine, radicati, dolorosi. Povero contro povero, italiano contro siriano, intelligente contro stupido. A parte i benedetti 80 euro, i vaffanculo e Dudù, cosa succederà nei prossimi cinque anni? Che ne sarà del nostro Vecchio inContinente e delle sue risorse, se ancora ne ha?

sabato 5 aprile 2014

Il nuovo paradigma di Silvia

Silvia in poco tempo ha perso due cose: il lavoro e la mamma. Son due cose grandi, da perdere. Insieme, poi... 
Silvia ha poco più di 50 anni, è una donna in gamba, ha una famiglia, le idee chiare. 
Silvia era molto brava, al lavoro. Era una ricercatrice. Una di quelle su cui puoi contare, sveglia, precisa. Insieme a molti altri è stata buttata via, come una ciabatta che non serve più. Perché oggi funziona così e ormai sta diventando normale, e non ci stupiamo neanche più, perché questa stagione del mondo ha falsato ogni metro di giudizio, ha raso al suolo vite e dignità come un tornado. Si tira solo avanti, ed è già tanto.
Anche la mamma di Silvia era brava. Aveva superato tutto, "la guerra e l'inquinamento", poi è ridiventata figlia, come spesso accade, e Silvia l'ha accompagnata fino in fondo, come spesso accade.
Quando le sue giornate si sono svuotate, Silvia si è chiesta cosa fare. Ha deciso di applicare la sua capacità di sintesi per dare un senso alle macerie e non fissarle con il cuore devastato. Ha preso il suo nuovo tempo e l'ha consegnato alla LILT (Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori, www.lilt.it), ha cambiato nome alla sua intelligenza e ha iniziato a dare una mano a chi si sente perso, a cercare e trovare competenza, dal basso, ogni martedì e poi di più, e poi insieme ad altre persone e poi e poi...
Mi ha detto che si "è presa una pausa" dalla vita precedente, che ora tutto rinasce in lei, che non sa se riuscirà a trovare un lavoro, che non si possono più fare programmi a lungo termine e questo è proprio vero; che lei può aspettare (per fortuna).
E per fortuna davvero qualcuno, mentre varca la porta dell'indicibile, la può incontrare, sorridente, e sentirsi meno solo.

giovedì 13 marzo 2014

Hanno tirato giù la "clèr"

Mi ha intristito passare davanti alla palestra Contourella, icona della forma fisica anni '80,  e vedere la saracinesca abbassata e un cartello meschino, scritto a mano, che comunica gli orari in cui si possono ritirare i propri effetti personali rimasti negli armadietti. 
Mi ha lasciato un po' di amarezza ma anche di rabbia, pensando agli istruttori che hanno perso il posto (molti, ingenuamente, avevano accettato di lavorarci dopo la chiusura dell'altra sede per sfratto e insolvenza, alla fine dello scorso anno); e per chi altrettanto ingenuamente si era iscritto la settimana precedente immaginando un corpo snello prima dell'estate, a prezzi stracciati. 
Mi ha straniato, ma forse nemmeno tanto, vedere smontato a pezzi un luogo che appartiene al mio scenario di una vita intera. Quante volte ho guardato in su dall'altra parte della strada, sorridendo di ragazze saltellanti e rigenerate, con la musica che rimbombava in strada... Enormi finestroni e corpi asciutti in movimento, immagine di vitalità, di energia, di normalità. Ma anche donne mature e ricostruite, cotonate e nullafacenti, che al mattino si inventavano un ruolo, un obiettivo, un senso, mentre io correvo al lavoro, con i minuti contati. 
Poco a poco chiude tutto, qui, nel quartiere. Si dirà che molto di ciò che chiude era espressione di una società che viveva di superfluo e di consumi, che per muoversi un po' è sufficiente farsi una corsa nello smog sotto casa o un giro in bicicletta. Si dirà che la latteria dove andava sempre anche mia nonna non vendeva più nulla, nemmeno i biscotti (vecchi) e la mozzarella a bagno nel latticello giallognolo. O che il negozio di pellicce, che per giunta ora non sono più di moda, non aveva alcuna ragione di esporre in vetrina quattro visoni morti. E il parrucchiere per signora? A soli quarant'anni il bravo coiffeur ha avuto un infarto e poi non lavorara più... I cinesi, a cento metri, fanno la piega a 8 euro, lui ne voleva 25. 
Non ha resistito, ovviamente, il negozio di sigarette elettroniche, ma quello era un bluff, non c'è da stupirsi. E nemmeno quello di camicie da uomo con il colletto bicolore (oddio!!), che aveva sostituito una banca e che è sfitto ormai da un anno. Una "luce" l'ha presa un'agenzia che procura badanti, con tanto di convenzione con la Regione, figuriamoci! 
O il grande negozio di abbigliamento sportivo, sotto il Contourella: a chi venderebbe più 
i body per l'aerobica? (ma non si dice più aerobica: yogaflex, posturial gym, total body, zumba, GAG... GAG??) 
I vestiti per bambini, quelli sì, che tirano. Chiusa una boutique, ne ha già aperta un'altra, la zona è promettente. Hanno tutte quei nomi assurdi, Favole per gioco, Il mondo di Mimì, Mastro Geppetto, Trenino dei sogni, Bimberia... Al posto di un'oreficeria c'è una "Bottega del bianco", pasta fatta in casa e sughi, sempre vuota. Ha chiuso anche la cartoleria, dai prezzi esorbitanti, dove compravo i rotolini per la Dymo (presente? quelli per scrivere le etichette con le letterine impresse...). Sembra invece che funzionino un centro di bellezza che applica unghie finte (sempre gestito da cinesi) e, bene o male i ristoranti, soprattutto quelli Asian/Fusion/Sushi/Thai. Anche il tabacchino all'angolo dell'isolato accanto, l'ha fatta finita, dopo anni di clientela un po' al limite del gusto e anche del lecito.
Qualcosa dentro di me dice che non poteva durare, 'sto modo di intendere la vita. Poi penso che se le fabbriche chiudono, che fine fa chi ci lavorava? E se la gente è "in cassa", in palestra non ci va, e le cravatte non servono più, anche se di marca. E nemmeno i gioielli etnici confezionati dalle donne buttate fuori a calci dalle aziende e che si sono riciclate in società con l'amica. Persino i bigliettini appesi alla cancellata della scuola, "baby sitter italiana referenziata" (con tanto di striscetta da strappare), sono spariti. Ce n'è uno divertente, di un "Baldo giovane offresi per curare i bambini, tutti i pomeriggi e anche la sera, provatemi!", lì da solo, che invecchia dentro una cartelletta di plastica, strattonata dalle intemperie. Di fronte, stanno tirando su una casa nuova, che schiumeggia sulle macerie di un edificio popolare di inizio Novecento, che era bellissimo. Non ci sarà più il negozio di accessori per auto del piano strada (insegna gialla con scritta nera, ci ho comprato un sacco di roba, dalla batteria alle catene da neve!). Al Contourella cambieranno la destinazione d'uso.
La crisi è come il fuoco, purifica. Poi riscresce qualcos'altro, qualcuno che ci prova, approfittando dell'affitto conveniente. Se pensiamo che il Bomba sia l'ultima spiaggia, siam messi davvero male.

giovedì 6 febbraio 2014

La metamorfosi

Premesso che su questo argomento ho i nervi scoperti (e non solo su questo, per la verità), sottopongo le mie riflessioni al solito lettore pietoso che si avventura a leggere questo blog.

Quando si perde il lavoro si perde anche una parte consistente di sé? Domanda retorica: sì.

Eppure quello che si può definire "scivolamento professionale" non dovrebbe coincidere con lo "scivolamento personale". Mi sforzo di credere che anche se un giorno ci si sveglia senza più né sedia né ruolo, in teoria si resta la persona di prima, con le stesse capacità e le stesse idee. Almeno per un periodo.

La realtà invece mi è testimone del contrario: senza lavoro sei una merda.
Ti inventi prospettive inesistenti, ti disperi, aspetti. Nella migliore delle ipotesi accetti il ripiego. Fino a qualche tempo fa, questo non accadeva immediatamente: si vagliavano tutte le ipotesi. Ora di ipotesi non ce ne sono più, quindi si anela direttamente alla sopravvivenza lavorativa, pur di non trasformarsi velocemente in una merda. Più passa il tempo e più questa merda collassa su se stessa.
 

Se si è fortunati, ci si ricicla. Da ingegnere informatico superspecializzato a semplice consulente di software gestionale per le banche (a contratto);
da caporedattore a traduttore freelance di fumetti satirici (previa gara di traduzione e con malcontento della categoria dei traduttori); da commessa o impiegata a babysitter (in nero).

Se si è mediamente fortunati, si "va in mobilità". Cioè, se lavori in un'azienda di una certa dimensione e con una rapresentanza sindacale decente, ti viene offerta la vantaggiosa opportunità di accettare un incentivo all'esodo volontario e ricevere un contributo dello Stato per enne mesi (dipende dall'età e dall'anzianità di servizio), in attesa di trovare un altro lavoro. In questo caso, mi scrive il mio amico ingegnere elettronico lasciato a casa senza neanche un plissé, "l'INPS paga contributi previdenziali e una indennità mensile, e in cambio può succedere di essere destinati a lavorare temporaneamente presso enti pubblici, per mansioni che siano il più possibile simili alla propria ultima esperienza di lavoro". Ecco. A lui l'hanno chiamato, per una possibilità di LSU ("Lavoro Socialmente Utile"). La convocazione è arrivata da una scuola media statale. Bene, si è detto il mio amico. Ovvio che non avrà a che fare con l'insegnamento (ci mancherebbe! E i precari? Quanto si incazzerebbero? Il doppio dei traduttori di fumetti satirici!!). Però magari sarò utile alla comunità, che a sua volta contribuisce ad alleviare il mio stato di disoccupato dopo 25 anni di lavoro altamente qualificato. Potrò mettere le mie capacità al servizio di un'istituzione che sicuramente avrà bisogno di una mano, magari con un progetto di informatizzazione o con l'ottimizzazione delle risorse multimediali... chissà!

Il mio amico si sbagliava. Il colloquio era per un posto di ... bidello! Ovviamente qualcuno di più qualificato - seppur in mobilità - gli è passato davanti. E io che già lo immaginavo a migliorare il sofware della biblioteca scolastica, oppure a imbastire piccoli corsi di informatica o scienze applicate...  Nel solco della tradizione italiana non gli hanno nemmeno "fatto sapere" più nulla: ha evinto da sé che la proposta era morta lì. Continua a mandare curricula in giro, consapevole che la sua esperienza è poco spendibile e che l'età è un ostacolo. E la collettività ha perso un'occasione: lui è veramente bravo e poteva davvero restituire, almeno in parte, l'aiuto ricevuto. In altri Paesi funziona così, e funziona benissimo. E non avanzi neanche il tempo, mentre cerchi un lavoro, di trasformarti in una merda.

Se invece si è sfortunati, è l'abisso. Dolore, fatica, senso di fallimento, vuoto esistenziale, nessun futuro da immaginare. Tenore di vita stravolto, coda al Centro per l'Impiego, i genitori che ti pagano il dentista, a volte ti riprendono addirittura in casa, te e la tua famiglia, in quattro, nella tua vecchia cameretta.

E quindi?
 

Quindi, se non hai il carattere del mio amico, che non si arrende mai ed è una persona fiduciosa ed equilibrata, dopo un po' arriva la metamorfosi: ti senti una merda anche se non lo sei ancora diventato, e poi, piano piano, lo diventi per davvero.
 

Presto si sviluppa anche una certa incomunicabilità, fra chi lavora e chi non lavora. Una strana sensazione di appartenere a due mondi diversi: come chi è malato e chi no, chi ha il figlio disabile e chi ha il figlio sano, chi "ci è passato" e chi no, chi è "dentro" e chi è "fuori". Ecco la parte di noi che perdiamo: ogni relazione si snatura, ogni discorso è mediato, ogni pensiero è un sottinteso. Ogni energia è volta a saldare gli insoluti. Il prezzo è un'involuzione senza fine, crudele, avulsa da tutto. 
Non so cosa possa salvarci dalla débâcle: un libro? Una giornata di sole? Il confronto con chi sta peggio? La risata di un'amica? Tutto, probabilmente. E, soprattutto, un altro lavoro. 

sabato 28 dicembre 2013

È Natale (non badare)*

Nella città più bella del mondo, il Natale è anche questo. Cerco sollievo nei due cagnolini.

Parigi, rue d'Arcole, 25 dicembre 2013


Le foto, le altre, la prossima volta.

(*cit. da "Spazzacamino", Rusconi-Cherubini-Bixio, 1929)

mercoledì 18 dicembre 2013

Otherwise we go on the rocks

Non credo che la colpa sia tutta di Schettino. Erano tutti in plancia, tutti sapevano tutto. Sapevano che la velocità era eccessiva, che la rotta era sbagliata, che il timoniere non capiva bene gli ordini, che c'erano molti problemi tecnici, che la carta non era dettagliata, che non si dovrebbe fare l'inchino, che il comandante era "distratto" quella sera, che non ci si "ammutina", che a volte tacere è meglio, se poi con lui ci devi navigare ancora. Sapevano tutto, anche l'armatore sapeva. Ridevano, in plancia, quella sera.
E anche noi sappiamo tutto.
Sappiamo a chi obbediamo, sappiamo che la rotta di questo Paese è stata impostata male, molto male e da molto tempo, sappiamo chi è stato, sappiamo che dobbiamo navigarci ancora, e non ci ammutiniamo. A meno di due miglia dal disastro, al buio, senza nemmeno le scialuppe di salvataggio, stiamo aspettando di capire chi è al comando, e abbiamo anche smesso di ridere. 
E invece bisognerebbe virare di brutto e in fretta, perché a me sembra che stiamo proprio andando a scogli.

domenica 8 dicembre 2013

Se gela

Lidl, sabato mattina. Il supermercato è pieno, coda alle casse. Ormai (o finalmente) anche gli italiani ex benestanti vengono a fare la spesa qui, il risparmio è sensibile; e la qualità
è una variabile che ogni giorno diventa meno importante. Nel parcheggio mi avvicina un signore; è arruffato, con un giaccone aperto, magro. "Mi scusi signora, posso riconsegnare il suo carrello?". Me lo chiede con gentilezza, con dignità, senza aspettarsi niente. Non è il solito rom insistente e villano, è il vicino di casa, il collega, il compagno di scuola. Ringrazio educatamente, non serve, faccio da me. Il signore sorride, si volta, va a riporsi
in disparte, come una cosa, vicino al muro, lontano dal viavai, per non disturbare.
Riporto il carrello e mentre cammino la lama del dolore e della vergogna affonda nel mio stomaco. Riaffiora "Il sole dei morenti", di Jean-Claude Izzo, mi manca il respiro, come quando l'ho letto. Mi avvicino al signore e gli passo il pegno di questa mia sofferenza.
Lui puzza di solitudine, di miseria, di alcol, di abbandono, di rinuncia, soprattutto. Sorride ancora, sorride, mi ringrazia. Ci guardiamo. In questo mondo e in tutti i mondi, se gela, è un attimo. Anche lui è scivolato.

domenica 27 ottobre 2013

Il futuro e la buriana

Il signor D. è un cretino. Quando si parla di futuro, bisogna stare attenti.
Il futuro di chi? Il signor D. è in età avanzata, il suo futuro ha già un contorno. Forse per questo non sta attento a quello che dice. Il signor D. non ha figli suoi, ma "aiuta" i figli di sua moglie, che sono in età matura, e che hanno figli; e questi figli e figliocci e nipoti non avrebbero nemmeno un presente se il signor D. non li mantenesse. Quindi al signor D. il loro futuro dovrebbe interessare. Comunque, il futuro di questo Paese, oggi, non è un un pensiero bello. L'Electrolux vuole chiudere le quattro fabbriche in Italia (notizia di due giorni fa) ed è l'ultima, in ordine di tempo, della serie infinita di aziende ricche e famose che lasciano nella merda migliaia di persone. Forse il signor D., ieri mattina, quando parlava di futuro, non aveva ancora sentito dei sei milioni di disoccupati che non sanno da che parte voltarsi per comprare la carne o per pagare le spese del condominio. 

Forse il signor D., quando dice che "conosce un sacco di giovani che si sono sistemati bene in Italia", e che "la buriana sta passando", non conosce invece i 232 ricercatori di una famosa azienda di telecomunicazioni, che dopo sei mesi non si sono ancora "sistemati", né bene né male. Il signor D. dice che i figli di sua moglie "sono delle merde, mentalmente o psicologicamente". Fra quei 232 ricercatori non ci sono merde, lo so per certo. Ci sarà qualcuno meno brillante, qualcuno meno sgobbone, ma non ci sono delle merde. Il signor D. dovrebbe sapere che alcuni di loro hanno tolto i figli dalla scuola a tempo pieno perché non avevano più i soldi per pagare la mensa. Il signor D. non sa che avrebbero potuto essere 233, ma uno di loro è morto di infarto, a 51 anni. Dopo due anni di lotte, scioperi, presidi, manifestazioni, una notte il suo cuore è andato a riposarsi. Bam. Fermo. Per sempre. Neanche i suoi ragazzi sono delle merde, sono orfani, ma non sono delle merde. 
Il signor D. dice che non bisogna mandare i figli all'estero, perché le "cose vanno cambiate dall'interno". 
Il signor D. non capisce la metafora della madre eritrea che, per salvare i figli che voleva portare al sicuro in Europa, quando il barcone brucia e tutti finiscono in mare, li solleva fuori dall'acqua, e lei va a fondo. E dopo vanno a fondo anche i figli, se qualcuno non li prende.
Il signor D. non misura le parole, perché non ha figli suoi, mi è stato detto. 
Ma io conosco anche gente che non ha figli suoi e si offre di stringere le braccia di quelli ancora a galla, e magari li porta a riva.
Il signor D. è un cretino e io a volte sono stanca e stufa di ascoltare le opinioni dei cretini. Mi offendo (ancora!), mi indigno, prevale il peggio di me.
Forse non è mandando i figli all'estero che li si salva, forse le cose cambieranno, forse finalmente Berlusconi morirà, forse investiremo sulla cultura, forse useremo i soldi delle spese militari per creare lavoro, forse il merito diventerà l'unica discriminante, forse conquisteremo anche noi la nostra primavera, forse la buriana passerà. Aspetto da così tanto tempo che, quando parlo di futuro, chissà perché sono certa che non sia qua. 
E quando parla il signor D., devo imparare a guardare fuori dalla finestra e aspettare che finisca, proprio come la buriana.

lunedì 26 agosto 2013

Km 158

Segnalo questo libro sulla base di sentimenti personali, ma condivisibili, credo, da molti.
Ne parla "L'Isola dei Cassaintegrati", un blog che ho visitato molte volte, con rabbia, con dolore, con disperazione.
Quando si parla di lavoro, occorre cautela. Grazie ad Alessandro Braga, che ha raccolto la storia di persone come tante. Alcune di queste, le conosco.
Al Km 158, in fondo, ho abitato anch'io.

http://www.isoladeicassintegrati.com/2013/08/14/km-158-la-lotta-dei-lavoratori-jabil-in-libreria/

sabato 24 agosto 2013

Un quarto di Pont l'Evêque

Rouen, mercato alimentare della domenica mattina. In coda per comprare una fetta enorme di Morbier, chiacchiero con la cliente dopo di me (ricca e colta, si vede da com'è vestita e dal marito gourmant che è dietro di lei) e la signora che vende dietro il banco. Ha licenziato la ragazza che la aiutava, "mangiava il formaggio e perdeva tempo...". La cliente compatisce la giovane lasciata a casa. Il faut aimer son travail, bisogna amare il proprio lavoro, dice. La formaggiaia è indignata: con questa disoccupazione, è vergognoso farsi licenziare perché non si vuole lavorare di domenica, si manca di rispetto a chi non ha di che sfamare i figli. Mi guardano entrambe, dopo aver magnificato il brebis fermier e avermi consigliato una toma che si conserva bene, vogliono sapere con chi sto. Non lo so. Forse sto con chi non ce la fa a sfamare i figli. Non è più ammesso non amare il proprio lavoro, se rinunci, offendi chi il lavoro lo sogna di notte. Scuoto la testa, resto su un generico "anche in Italia è dura, e stanno ammazzando lo stato sociale, la gente piange". Il pacchetto è pronto, pago. Sentirà, il Pont l'Evêque è eccezionale. Certamente, grazie. Bonne journée.