Bicocca

Bicocca
Fausto Melotti, La sequenza, Milano
Visualizzazione post con etichetta viaggio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta viaggio. Mostra tutti i post

martedì 4 ottobre 2022

Carnet de voyage - Parigi # 2 - La bellezza delle illusioni

Il quartiere dove abito è privo di turisti ma pieno di vita. In un raggio di 500 metri ci sono cinque supermercati (dallo snob vegano al Lidl a un Auchan dove si può soltanto ritirare la spesa ordinata online), tre fermate della metropolitana, due farmacie, una pletora di locali e botteghe (da noi scomparse), per ogni esigenza, ogni tasca, ogni capriccio. Due parchetti, le scuole di ogni grado (i ragazzini sempre in giardino… ma quanta educazione fisica fanno? Sento le risate e penso ai nostri inchiodati al banco 8 ore), un sacco di lavori sugli edifici, demolizioni, impalcature: avranno anche loro il 110%. Devo informarmi.

Comunque l’emozione più forte di ieri (devo imparare a riordinarle, le emozioni, quando sono qui è tutto elevato a potenza) è tutta per una puntatina divertente al Musée de la Illusion. L’infanzia riscoperta fra i giochi delle illusioni ottiche, scattando foto assurde, me piccolissima, me seduta una sedia gigante, un caleidoscopio che spezzetta i volti in mille spicchi, il turbinio di luci, i piani inclinati, la perdita delle proporzioni, dell’equilibrio (ma dai… si cade!), dell’orientamento.

Immagino che ci siano posti come questi in tutto il mondo, ma solo qui mi permetto il lusso di illudermi per un’ora che la realtà sia l’opposto di ciò che è. 





domenica 1 ottobre 2017

L'Ovest di Macron

Quasi sei mesi di silenzio: vorranno pure dire qualcosa!
La ragione è principalmente una: il profluvio di condivisione altrui mi dissuade dal partecipare alla colata di pensieri e ri-postaggi e comunicazioni varie.
Se il lettore è infastidito quanto me da questa cornucopia di robe inutili, spiagge, figli, battute, aperitivi, battaglie umanitarie, articoli di giornale ripubblicati decine di volte, insulti, megafoni, opinioni su tutto lo scibile umano, dagli animali domestici ai vaccini, che voglia avrà di leggersi le mie quattro cazzate pensate e ripensate, possibilmente purgate dalla noia e dalla banalità (che comunque...). 
Pazienza, ci riprovo.
Un blog uno se lo va a cercare, in fondo. Ecco, ve la siete cercata.

Piccola premessa: quest'estate volevo sanare una ferita. No, volevo chiudere un cerchio. No, volevo vendicarmi. Tre anni fa il mio giretto era stato interrotto da una sgradevole vicenda personale e non l'avevo digerita, 'sta cosa. Quindi sono andata là dove avevo abbandonato i miei pensieri. Anzi, ho voluto guardare un'altra Bretagna, quella ancora tenacemente comunista, ora impoverita e che ha dovuto ingoiare Macron, pur odiandolo. Niente mete turistiche, o poche, e molto territorio, molta natura, molte coste, molti campi coltivati.

Ho cercato gli sguardi e la rabbia di queste persone testardamente legate alle tradizioni, al mare, al vento. Anime durissime, abituate alla fatica e alle sfide delle tempeste. Capelli rossi, fisico imponente, sorrisi asciutti, cerate gialle. Pescato. L'odore forte di alghe e di vacche. Melenchon e il bolscevita Hamon (bretone, il padre l'avrebbe voluto camallo al porto) qui sono ancora gli unici che difendono la pesca d'altura dalle grandi multinazionali e la terra dei contadini dalla devastante urbanizzazione; sono gli ultimi bastioni contro la costruzione dell'aeroporto di Nantes e lo sfruttamento di ciò che resta dei pescatori di professione. Li hanno votati i giovani, in gran parte, quelli che ancora sperano. Resiste e forse rinasce qui la sinistra francese, in questa terra protesa e stanca.  

Pesca d'alghe al largo di Roskoff

Insegna dell'Associazione per il salvataggio di vite umane in mare




martedì 11 aprile 2017

Atene # 02 - La compagna dei Greci


Le città sono veramente belle o veramente brutte soprattutto a Natale. A me piacciono le città, tutte. Mi piace esplorarle, capirne il respiro, guardare le facce di chi ci abita, i muri, la metropolitana, la vita. A Natale, se hai il cuore duro, vedi tante cose che in primavera sono più sfumate.

Lungo Eolou, ho immaginato le storie di chi attraversa la strada di corsa, rimprovera un bambino, prega (tanto), chiede l'elemosina.
In realtà, ad Atene, sfinita dallo strozzinaggio tedesco, l'elemosina la chiedono in tanti. E a Natale di più, mi è sembrato. E mi è sembrato anche che fosse un'elemosina più dolorosa, più fredda, più umida, più consapevole e più umiliante rispetto a quella di aprile.
Un Natale scintillante e miserevole. 

La Grecia la stanno ammazzando. Non ne parla più nessuno e nel silenzio assoluto i greci vanno a fondo. Un greco su quattro non ha di che vivere. 

Lungo Ermou, ma non solo, un edificio su tre è vuoto, con le vetrine dei negozi sulla strada ricoperte di scritte e giornali, spesso abitato da fantasmi senza più nulla. Così le incredibili luminarie hanno acceso anche gli angoli più dolorosi. 
Una signora con il cappotto, ben vestita, una sciarpa che la proteggeva dal vento gelido. Seduta su una seggiolina, testa bassa, piattino. Poco più in là, in Evaggelistrias, sotto un platano, un quarantenne con gli occhiali, giaccone blu, aria da ingegnere. Lui sì che mi ha fatto male, non so, forse è questione di stereotipi: testa bassa, bicchiere in mano. E così via. Una giovane perbene che vendeva scarpine per neonato fatte a maglia, e sferruzzava. L'ho ritrovata in Adrianou la scorsa settimana, le scarpine ormai di cotone, insieme ad alcune bamboline. Giovani acrobati in piazza Syntagma. Anziani che vendevano pannocchie arrostite. Oggi, alcuni offrono sul marciapiedi davanti a Thissio ciò che resta della loro vita di sette anni fa: scarpe ancora decenti, maglioni usati ma belli, elettrodomestici funzionanti, quaderni di scuola avanzati, abiti, strumenti musicali, orecchini, tavolini, cose tutte di cui a un certo punto si può fare a meno, per pagare la spesa.

Molte case, soprattutto in centro, sono abbandonate. Case anche belle, dell'inizio del Novecento, con balconi in ferro battuto. Sui davanzali ancora qualche vaso. I muri ricoperti di graffiti, vecchie pubblicità, un decoro sui generis. Ciarpame vario, scacchiere rotte, ferramenta.





Erodoto racconta che Serse chiese a Demarato, figlio di Aristone, che lo accompagnava nella spedizione contro la Grecia, se i Greci avrebbero opposto resistenza ai Persiani. Demeraro rispose che "da sempre la povertà è compagna dei Greci, mentre la virtù è un acquisto successivo, frutto della saggezza e di una legge severa: e grazie alla virtù la Grecia si difende dalla povertà e dall’asservimento".
Sarà.



Ma questa sì, è la parte scura e brutta della Grecia. La terra bruciata della crisi, l'urlo dell'indigenza. La gente che prova a sorridere, nei negozi e nelle botteghe, anche con dentature che risentono della situazione. E sorride sempre meno, a dir la verità, nemmeno a beneficio dei turisti. 

Dall'alto, l'Acropoli osserva.





mercoledì 1 marzo 2017

Viaggio all'estero

Quando ho bisogno di tagliare la corda mentalmente, faccio un giro in (via) Paolo Sarpi.
La parola "via" è pleonastica. Non si usa, in realtà. Si tratta di un vero e proprio viaggio all'estero, un estero riproposto in molte città del mondo, più o meno identico, chiamato China Town. 




Qui a Milano consiste in 500 metri di una strada con moltissimi negozi, la maggior parte dei quali vende indumenti brutti oppure offre servizi di informatica oppure oggetti a metà fra la bigiotteria e l'acconciatura, in enormi scatoloni, spesso solo all'ingrosso. Fuori dalla porta sono parcheggiate le biciclette, munite di portapacchi di legno e pezzi di camere d'aria adibite a elastici per fissare gli enormi sacchetti di plastica con cui i proprietari trasportano le merci. 


Fra una vetrina e l'altra, ogni tanto, ci sono trattorie o ristorantini di cucina cinese, ben diversa da quella dei soliti locali sotto casa. A volte il cuoco è in strada, che scambia due parole con qualcuno. Da quando è diventata pedonale, la via si è data un tono ed è diventata una destinazione quasi turistica, molto in voga. Hanno aperto anche due o tre supermercatini e uno più grande e più brutto, e diversi take away con relativa coda di avventori sul marciapiede. Gli italiani che frequentano Paolo Sarpi sono sparuti e sostanzialmente visitatori. Qualche residente c'è, a dire il vero, agé, perlopiù; oppure, la domenica all'ora di pranzo, giovani uso designer e benestanti, hipster a loro modo, stazionano con il pc sul tavolino dei bar. Per il resto, chi percorre Paolo Sarpi appartiene alla nutrita comunità cinese che abita in città, corpo alieno e integrato al tempo stesso, come tutti gli expat ovunque nel mondo. A me personalmente piace tanto passarci un paio d'ore, inventando il significato degli annunci appiccicati al semaforo o delle scritte sui muri. 


Ciondolo stupidamente nel supermarket strettissimo e ingombro dei prodotti più balenghi, cercando il tè al gelsomino, e resto delle mezzore a guardare gli scaffali strapieni di alimenti sconosciuti, funghi secchi di venti specie diverse, alghe, frutti vari essiccati o in scatola, polveri strane, verdure, salse di soia e di pesce, persino alte canne scure (sul biglietto incollato al cesto che le contiene c'è scritto "zucchero di canna"!).
Il congelatore trabocca di robe poco invitanti, dai formaggi al surimi; due metri al di là delle centinaia di spaghetti e tagliatelle di riso, ci sono gli attrezzi da cucina di melanina e alluminio, e dolci confezionati poco invitanti, sacchetti di qualcosa di fritto o di secco, il cui contenuto è descritto in cinese e chissà cos'è.
Lo spazio è davvero molto angusto e la folla di clienti (solo cinesi) è tale che si viene spintonati continuamente, soprattutto se si esita, come me, davanti a confezioni di lychis da 1 chilo o di simil-cipolline in vasetto. Alla cassa la coda è di venti minuti e mi sento proprio a Shanghai, non capisco una parola delle chiacchiere che sento, nell'attesa do un'occhiata ai prodotti di bellezza o alla scatola di tè matcha in polvere (in offerta a 24 euro). 




Esco con il mio sacchetto e una sensazione di piacevole confusione, poi vado dritta al negozio di ravioli da asporto dall'altra parte della strada: la pasta la stende una ragazza piccolina con un mattarello piccolino; alle sue spalle, in un pentolone di brodo, un altro ragazzo te li cuoce al momento e te li serve nella vaschetta con una forchettina di legno. Santiddio che buoni... I ravioli sono sei e non mi bastano, ma alle quattro del pomeriggio non me la sento di esagerare. Trecento metri e sono già tornata in Italia. All'incrocio già non si avvertono più l'odore e il rumore di quel mondo a parte, e corso Sempione si distende verso l'Arco della Pace, trafficato e rumoroso. Pochi minuti e il mio viaggio all'estero è già un ricordo, mescolato a mille altri, alle mille altre China Town. Fino alla prossima fuga.

sabato 17 settembre 2016

Deutschland über Alles # 06 - Amburgo


Nell'elenco di posti che vorrei vedere prima di accomiatarmi e di cose che vorrei fare, c'era Amburgo e un giro nel porto. Esperienza accessibile e in fondo molto banale. Quindi non c'è stato nulla di stupefacente, se non la giornata, i suoi colori e il contesto. Una città fotogenica, anche solo per la sua gradevole dimensione, maestosa e al tempo stesso umana. Dicono che gli abitanti siano un po' snob. Già l'accento lo denuncia, così dolce, quasi per nulla aspirato e meno aggressivo.
C'è di tutto, ad Amburgo, fritto misto di architetture, ideologie, età, razze e lingue, santi e puttane. Una gentilezza generale. O forse sono io, permeabile alla diversità.








sabato 3 settembre 2016

Deutschland über Alles # 04 - Berlino

L'immagine più viva che conservavo di Berlino (1988, durante un viaggio particolare, diciamo "di scoperta") era quella di una pasticceria dell'Est, con due (due!) torte spessissime e obiettivamente tristi, esposte in vetrina su un banco a gradoni di legno. E poi i buchi fra le case: casa, casa, casa, buco, casa, buco, casa, buco... ogni tanto un edificio, probabilmente distrutto da un bombardamento, non era stato ricostruito. E molte donne sole, spesso anziane. E il muro, certo. Ho anche la foto che mi ritrae con J., abbastanza (ma abbastanza) vicini, davanti a un tratto di muro colorato, quindi sul lato Ovest.
E la fermata della metropolitana "saltata".
Poi basta. 

Ci sono tornata, dopo troppo tempo e troppe cose. 

Ovviamente le pasticcerie adesso sono tutte belle, la metropolitana ferma in tutte le stazioni e le case le hanno ricostruite. Non tutte, quelle.
Berlino è un cantiere, da vent'anni. Non c'è marciapiede, isolato, strada, incrocio, parco, edificio che non sia spalancato e non sia in ristrutturazione/costruzione. 
Una città sventrata, intesa a cancellare, rifare, riprogettare, cambiare (soprattutto).

La prima passeggiata, iniziata con il cielo bianco sopra Berlino, mi ha scoraggiata. Fra transenne, ruspe e turisti che non guardano la Porta di Brandeburgo ma il cellulare proteso davanti a sé e la mercificazione di ogni segno del passato ma anche del presente e del futuro, mi è apparsa una visione alterata della metropoli, che per tallonare la sua nuova fama di "place to be", mi pare comunque in affanno. Tutto è solo parzialmente accessibile, causa restauro o rinnovamento o soppressione. 

Ecco, secondo me l'idea di conciliare gli errori di un tempo (dalla questione ebraica alla DDR) con le aspirazioni di oggi a suon di luoghi commemorativi (centinaia di memoriali per significare ogni lutto di ogni categoria di persone) e calcestruzzo, è straniante.

Ovviamente Est ed Ovest sono tutt'uno, fisicamente e in buona parte anche culturalmente e filosoficamente e mentalmente e ogni -mente. Il cemento funzionalista resiste in qualche posto, più per scelta economica che urbanistica. A volte si ha l'impressione che il palazzone stia per crollare, talmente è storto... Dove possibile, le ruspe sono ancora in azione. 

Il muro, per esempio, adesso è una specie di traccia per terra, salvo pochi metri lasciati in piedi per motivi vari, principalmente turistici.  
Le cose da vedere ho cercato di vederle, dall'infantile ascesa sulla Torre della Televisione alla Porta di Ishtar (l'Altare di Pergamo era in fase di trasferimento ad altra sala..). 

Mi sono concentrata sulle persone e sul loro modo di muoversi. Gli impiegati, gli studenti, gli operai appesi ai ponteggi, le commesse, le ragazze (vanno molto i capelli color fucsia). Dalla periferia ogni giorno ho raggiunto il centro con la mia bicicletta portata da casa, caricandola sul treno. Sembrava un rottame rispetto alle altre. Sulla carrozza apposita (eh...) ho osservato gli ingegneri con il pc e il caschetto protettivo, la bici sotto il braccio di corsa per le scale della metropolitana (anche se ci sono gli ascensori, garantisco!); c'è qualche famiglia di immigrati, perlopiù siriani (ma pochi, se è vero che la Germania ne ha accolti più di un milione), e ci sono molti ragazzi. Dicono che i berlinesi siano già stufi di questa trasformazione radicale modaiola e in nome di art&design&wathever. Tutti 'sti ggiovani che hanno hanno fatto lievitare gli affitti e vivono di giorno e di notte e creano e studiano e connotano... Solita storia. Della serie "Venezia è bella ma non ci vivrei", Berlino è viva ma non ci morirei.

Ho portato a casa con me:

 - Karl-Marx-Allee, per l'architettura (eh sì!), il respiro, il progetto e l'armonia. E anche per il Festival della Birra che vi si tiene una volta all'anno, della birra me ne frego perché non la bevo, ma il contorno è indimenticabile.
- Un incrocio di strade dietro la Sinagoga Nuova, dove non ho visto un solo turista ma mamme con passeggini, gallerie d'arte, studenti, un teatro in attesa di un futuro. Seduta a un tavolino di una pasticceria (neanche troppo elegante), mi sono concessa per 2 euro e 50 una fetta di torta e un caffè incredibile, sul marciapiede di un mondo normale.
- Alexander Platz: sconclusionata e immensa, c'è tutta la contraddizione che serve a non sentirsi in colpa per nulla.
- Molta arte da molti musei.
- Molte foto.
- I tubi colorati e labirintici per scaricare l'acqua della faglia su cui galleggia la città.
- Il piacere di girare in bicicletta senza pericolo di morire; nel meraviglioso, straordinario, invidiabile, giusto e rassicurante rispetto delle regole. Tutte. Non solo quelle stradali. 
- Il cielo azzurro sopra Berlino dell'ultimo giorno.
- Una certa spensieratezza.










   











venerdì 26 agosto 2016

Deutschland über Alles # 02 - Il senso dei tedeschi per la DDR

Allora. A cavallo degli Anni ’90, la Germania dell’Ovest si è comprata ai saldi quella dell’Est, con annessi e connessi. I tedeschi dell’Ovest han detto a tutti che quelli dell’Est erano dei pezzenti, tutti spie (o quasi), schiavi e/o complici della Stasi, ignoranti e lazzaroni, mantenuti dallo Stato, arretrati culturalmente. Eroe chi scappava, vile e comunista (d’apparato, anche…) chi non ci provava.
Da quando hanno picconato il Muro sia quelli dell’Ovest sia quelli dell’Est si sono prodigati più o meno amichevolmente per cancellare ogni traccia del passato, demolendo edifici (soprattutto) e attribuendo ogni elemento funzionale all’etica socialista reale, brutta e cattiva. I tedeschi dell’Ovest hanno cambiato persino l’aspetto di quelli dell’Est, li hanno impiegati in posti statali (nelle scuole, per esempio… erano bravi insegnanti di tedesco e matematica), oppure li hanno messi a produrre in fabbrica, assimilandoli ai turchi. Con un generico sguardo commiserevole li hanno tenuti lontani dai posti di comando. Fino alla Merkel, che avrà piazzato i suoi sodali là dove era utile. E si sa, una buona dose di esperienza organizzativa serve sempre.

Insieme poi, i tedeschi tutti hanno pensato, secondo un rodato ingegno capitalista, di far fruttare il marchio DDR, con musei in quasi ogni città dell’Est, possibilmente nella locale sede dell'Ufficio del Ministero di Sicurezza dello Stato, nei quali hanno esposto merce di vario genere che a noi ricorda quella degli Anni ’50 invece risale agli Anni ’80 (sai che reperti!), foto di Honnecker che stringe la mano a Gorbaciov, esempi di lugubri sistemi di controllo dei media, parrucche, pance e occhiali finti per i pedinamenti della polizia segreta, oggetti da campeggio, timbri postali, materiale di reclutamento per informatori, bandiere, ricostruzioni di celle per interrogatori, cassette Basf per registrazioni telefoniche, pezzi di muro di Berlino, caschi asciugacapelli da parrucchiere, masserizie di uso comune, tappeti di lana inneggianti all'unità dei lavoratori (questa sconosciuta). Danno anche un finto visto d'entrata nella DDR e per soli 2 euro (!) aggiuntivi, si possono scattare fotografie. 

A margine delle istituzioni, singoli privati vendono in strada maschere antigas e colbacchi, indumenti militari, spillette, robe così. Saggi del regime a pochi euro, disponibile per tutti. Ai turisti noleggiano persino le Trabant. O le espongono, insieme a pezzi di motore.

Ché si sa, il comunismo è sconfitto, l’individuo trionfa e soprattutto pecunia non olet.

Capitolo a parte, che merita non poco, è quello dell’edilizia. Dato per certo che i “casermoni socialisti” sono brutti, dove è stato possibile (o conveniente o necessario) li hanno rasi al suolo. E continuano a farlo. Oppure li hanno dipinti con colori pastello, per cancellare il “grigiore”, ideologico prima che cromatico. Perciò, sfrecciando in bicicletta a Dresda si vedono enormi ruspe che inghiottono una roba di 6/7 piani di cemento armato con finestroni quadrati. Chissà chi ci ha lavorato o abitato (dal punto di vista architettonico la funzione è spesso indistinguibile). Oppure, appena fuori dal centro di Lipsia, si attraversano quartieri un po’ anonimi, i famosi blocchi abitativi che, per quanto orripilanti, non hanno niente a che vedere con alcune periferie italiane (il milanese quartiere Gratosoglio ne è un esempio).
Qualcosa è rimasto in piedi per disattento rispetto per passato, per criteri economici o perché neanche le bombe strategiche degli Alleati ne hanno avuto ragione. Non si sa a chi credere. In ogni caso, in un paio di decenni il processo di rimozione, almeno all’apparenza, ha funzionato.

Le persone, invece, quelle son difficili da cancellare. Soprattutto i vecchi (tanti, forse perché siamo in estate). Hanno proprio uno sguardo diverso, una postura diversa, un modo di vestirsi diverso. Hanno anche un tedesco diverso, più asciutto, più aspirato, più aggressivo. Sono gentili, ma l’atteggiamento è ancora quello di chi non si fida (sempre i vecchi). Efficienti nelle loro professioni, pubbliche o private, ma poco inclini alla chiacchiera. Forse è anche un retaggio prussiano. Così, a prima vista, non sembrano immensamente più felici di quando li ho incontrati nel 1988. I colori sono gli stessi. Molto ingenuamente, mi chiedo se bastino le ruspe e l’ostensione delle reliquie sovietiche per costruire una società felice, ammonendo i posteri. Se omologare il consorzio umano buttando via tutto, si possa definire progresso. Così, dal Baltico a Lubecca, dal Magdeburgo a Usedom, il rigore formale si accompagna a una strana idea di rinnovamento, una passata di candeggina su trent’anni di storia. Adesso, nonostante l’economia fiorente e la disoccupazione al 6,1%, la posizione dominante e tutto il resto, in Germania come ovunque i poveri sono davvero poveri e i ricchi davvero ricchi. I giovani neanche lo sanno, com'era solo pochi anni fa. E poi ci sono gli immigrati: appunto, dove sono? Non qui.

(Berlino, è un caso a sé. E quindi richiede una riflessione a sé.)


Lipsia
Dresda

Berlino

Radebeul
Museo della Stasi, Lipsia
Berlino
Museo della Stasi, Lipsia

martedì 23 agosto 2016

Deutschland über Alles # 01 - Rügen

A Rügen ovviamente non ci sono le foche. Questo lo sapevo. Ma ci sono le scogliere di Friedrich. Che son belle, sì, candide e identiche a tutte le scogliere di gesso, forse un filino più inquietanti, dato il contesto naturale.

A Rügen molte strade sono lastricate a pavet, quindi se giri l'isola in bicicletta, il culo non è contentissimo. 

A Rügen ci si arriva immaginandosi chi sa che, e infatti è un mondo a parte.
I villeggianti sono veramente un po' strani e praticamente solo tedeschi. Presumibilmente alcuni sono molto ricchi, a giudicare dalle bellissime architetture balneari Anni '20, di legno bianco, tutte occupate dai turisti.
Ma sulla sabbia bianca, e anche con un 
Fischbrötchen (panino con l'aringa o altro pesce semicrudo) in bocca, non si evince una grande opulenza. Anche dall'abbigliamento, non si direbbe. 
O forse si dovrebbe dire, guardando i famosi chilometri di casermoni nazisti di Prora, che ormai sono diventati residenze e alberghi di lusso, quasi tutti ultimati, con obbligo di rispettare (più o meno) la struttura originale, e provvisti di ufficio vendite in loco. 

Comunque a Rügen ci sono anche tanti hippy o grossomodo hippy. Hanno i capelli lunghi, girano scalzi, hanno tanti figli, bevono molta birra (quella non solo a Rügen). E si muovono rigorosamente in bicicletta. Ti fan sentire giovane, e non è male. Del genere: se rinasco... ecc.

Rügen le spiagge sono bellissime. Affittare una poltrona in vimini per due con coperchio antivento (Strandkorb), costa pochi euro e tutti fanno il bagno nell'acqua cristallina, con temperatura intorno ai 18°C, quindi abbordabile. Sono tutti sorridenti e gioiosi. Ci sono molte spiagge FKK (Frei Körper Kultur, cioè per naturisti), il che a mio avviso sarebbe un'opportunità meravigliosa e da non perdere per niente al mondo, ma la temperatura dell'aria, quella sì per nulla abbordabile, si aggira sui 15-16°C con vento sostenuto da Nord, quindi è un po' come la volpe e l'uva, un vorrei ma non posso che definirei urticante, in senso stretto.

Rügen, volendo, si può organizzare il pranzo di nozze seduti dentro una specie di navicella sulla spiaggia. In dotazione anche la statuina degli sposi e il modellino di un veliero. Da ascrivere al capitolo "Romantisch".


A Rügen ho trovato solo due mezze giornate di sole, ma non di sole sole... di quel sole lì bello nordico, con i nuvoloni bianchi. Poi basta. Perciò a parte Prora, gli hippy, il panino con il pesce, l'architettura elegante di Binz e i moli protesi nel mare per centinaia di metri, la luce di Rügen l'ha colta solo Friedrich, quando non era circonfuso dai suoi incubi. Ed è già una meraviglia.