La parola "via" è pleonastica. Non si usa, in realtà. Si tratta di un vero e proprio viaggio all'estero, un estero riproposto in molte città del mondo, più o meno identico, chiamato China Town.
Qui a Milano consiste in 500 metri di una strada con moltissimi negozi, la maggior parte dei quali vende indumenti brutti oppure offre servizi di informatica oppure oggetti a metà fra la bigiotteria e l'acconciatura, in enormi scatoloni, spesso solo all'ingrosso. Fuori dalla porta sono parcheggiate le biciclette, munite di portapacchi di legno e pezzi di camere d'aria adibite a elastici per fissare gli enormi sacchetti di plastica con cui i proprietari trasportano le merci.
Fra una vetrina e l'altra, ogni tanto, ci sono trattorie o ristorantini di cucina cinese, ben diversa da quella dei soliti locali sotto casa. A volte il cuoco è in strada, che scambia due parole con qualcuno. Da quando è diventata pedonale, la via si è data un tono ed è diventata una destinazione quasi turistica, molto in voga. Hanno aperto anche due o tre supermercatini e uno più grande e più brutto, e diversi take away con relativa coda di avventori sul marciapiede. Gli italiani che frequentano Paolo Sarpi sono sparuti e sostanzialmente visitatori. Qualche residente c'è, a dire il vero, agé, perlopiù; oppure, la domenica all'ora di pranzo, giovani uso designer e benestanti, hipster a loro modo, stazionano con il pc sul tavolino dei bar. Per il resto, chi percorre Paolo Sarpi appartiene alla nutrita comunità cinese che abita in città, corpo alieno e integrato al tempo stesso, come tutti gli expat ovunque nel mondo. A me personalmente piace tanto passarci un paio d'ore, inventando il significato degli annunci appiccicati al semaforo o delle scritte sui muri.
Ciondolo stupidamente nel supermarket strettissimo e ingombro dei prodotti più balenghi, cercando il tè al gelsomino, e resto delle mezzore a guardare gli scaffali strapieni di alimenti sconosciuti, funghi secchi di venti specie diverse, alghe, frutti vari essiccati o in scatola, polveri strane, verdure, salse di soia e di pesce, persino alte canne scure (sul biglietto incollato al cesto che le contiene c'è scritto "zucchero di canna"!).
Il congelatore trabocca di robe poco invitanti, dai formaggi al surimi; due metri al di là delle centinaia di spaghetti e tagliatelle di riso, ci sono gli attrezzi da cucina di melanina e alluminio, e dolci confezionati poco invitanti, sacchetti di qualcosa di fritto o di secco, il cui contenuto è descritto in cinese e chissà cos'è.
Lo spazio è davvero molto angusto e la folla di clienti (solo cinesi) è tale che si viene spintonati continuamente, soprattutto se si esita, come me, davanti a confezioni di lychis da 1 chilo o di simil-cipolline in vasetto. Alla cassa la coda è di venti minuti e mi sento proprio a Shanghai, non capisco una parola delle chiacchiere che sento, nell'attesa do un'occhiata ai prodotti di bellezza o alla scatola di tè matcha in polvere (in offerta a 24 euro).
Esco con il mio sacchetto e una sensazione di piacevole confusione, poi vado dritta al negozio di ravioli da asporto dall'altra parte della strada: la pasta la stende una ragazza piccolina con un mattarello piccolino; alle sue spalle, in un pentolone di brodo, un altro ragazzo te li cuoce al momento e te li serve nella vaschetta con una forchettina di legno. Santiddio che buoni... I ravioli sono sei e non mi bastano, ma alle quattro del pomeriggio non me la sento di esagerare. Trecento metri e sono già tornata in Italia. All'incrocio già non si avvertono più l'odore e il rumore di quel mondo a parte, e corso Sempione si distende verso l'Arco della Pace, trafficato e rumoroso. Pochi minuti e il mio viaggio all'estero è già un ricordo, mescolato a mille altri, alle mille altre China Town. Fino alla prossima fuga.
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