Bicocca

Bicocca
Fausto Melotti, La sequenza, Milano

domenica 27 dicembre 2015

Meglio di niente

Alle 7 del mattino la piazza è già animata. Si montano i banchi del Marché Provençale, il vociare mi sveglia insieme al baccano dello scarico merci. Mi ricordo dove sono e perché, mi affaccio e guardo il cielo che si fa rosa, con la luna che si sgonfia. Il Bar Bacchus ha i tavolini affollati per il primo caffè della giornata, alla finestra sale l'odore del pesce fresco, del pane appena sfornato, della piastra della socca, cioè la farinata di ceci. Anche i gabbiani sono già eccitati, gridano come pazzi e svolazzano cattivi sui tetti, sono enormi. Ieri ho visto un cormorano grande come un tacchino, si asciugava al sole le ali spalancate, in bilico su uno scoglio. Mi preoccupa la mia calma apparente, ha il sapore della resa. Permetto alla vita di limitare la mia smania di sentire tutto subito tanto senza eccezioni. Guardo il mare, anche lui è come me, scuro, immobile e in attesa. Forse ha ragione lui, testa bassa e lasciar passare il tempo avverso. Con un po' di sforzo potrei scendere zoppicando sui bastioni, a respirare guardando giù.

martedì 8 dicembre 2015

Giovani adulti

Fra una fresca e l'altra, mi guardo intorno cercando di capire come funziona il microcosmo generazionale che non mi appartiene più. Finisce che inciampo in certe figure, che si riassumono più o meno in modelli, come quelli usati dai sarti: il tempo ritaglia intorno ad essi una vita italiana, nell'età in cui una volta si teneva già famiglia (o si era tornati dalla guerra, per dire...). Ho incontrato questi giovanotti, mi sono fatta raccontare le loro storie, ho misurato di nascosto il raggio del loro mondo. 


Fabio, caldaista
Ha 21 anni è di Corsico, vicino a Milano. Quando ne aveva 11 la madre se n'è andata di casa con un altro signore, lasciandolo con il padre e il fratellino di tre anni minore di lui. Dopo qualche tempo di convivenza infruttuosa, i ragazzini sono stati affidati alla nonna paterna, sola, pensionata, che li ha accuditi meravigliosamente. Portato a casa il diploma di perito meccanico (voto: 100 e lode), Fabio inizia a lavorare part-time in un'azienda che installa a manutiene caldaie. Al pomeriggio (e di sera) segue un corso per caldaista, per due anni. Al termine, il suo contratto da apprendista viene per questo convertito in uno a tempo indeterminato, anche perché: a) è bravissimo; b) il tecnico di 35 anni a tempo indeterminato che gli ha insegnato il mestiere viene licenziato perché costa 200 euro in più al mese, più contributi e tredicesima. Che si sa, in un anno, son soldi. Consapevole di questa fortuna, Fabio sgobba come un mulo, anche il sabato, anche in agosto, quando invece delle caldaie, installa condizionatori. Ma Fabio ha un altro progettino, incartato e conservato nello suo scomparto "sogni": fare il disegnatore meccanico, lavoro per il quale ha studiato a scuola. Ma il tempo è quello che è. E quindi, la domenica, versa un quarto del suo stipendio a un architetto che gli sta insegnando a lavorare in Autocad, in attesa della certificazione che potrebbe valergli un posto di lavoro da qualche altra parte. La ragazza ce l'ha, ma è una "figlia di papà", che richiede "troppe energie e troppi soldi" e, insomma, la tiene ma... Fabio è bellissimo, ha due occhi neri pazzeschi, un fisico da statua, un'intelligenza e una determinazione invidiabili. Gli piacerebbe anche comprare una casetta dove vivere con la nonna, ma non vuole esporsi troppo e poi, dice, la nonna è vecchia. Già. Si limita a fare la spesa al sabato sera, dopo il lavoro, a pagare le bollette, a mantenere il fratello (prossimo al diploma), ad adorare la vegliarda vicemamma. Insiste a sperare.

Francesco, impiegato ragioniere
Ha 29 anni, vive in un paesotto alle propaggini di Milano, figlio unico, abita ancora con mamma e papà. Dopo il diploma si è iscritto a Economia, ma non faceva per lui (troppo difficile?). Il padre gli ha trovato un posto da contabile nell'azienda di imballaggi di proprietà di un amico. Ci lavora da nove anni, da solo, senza colleghi. Fatture, bolle di accompagnamento, dare e avere; vicino a casa, alle 5 è fuori. I genitori, se ritarda mezz'ora, gli chiedono dov'è stato, cos'ha fatto. Non è un'aquila, anzi. Forse ha anche qualche problemino, a dir la verità. Però ha purtroppo anche la consapevolezza di vivere in una gabbia (sic!) e ovviamente vorrebbe volare via. Non lo fa per non addolorare i genitori o forse soltanto perché sa di non esserne capace. Chissà. Comunque sbircia fra una sbarra e l'altra, fa spuntare solo il becco della sua curiosità, annusa l'idea di migliorarsi, di scoprire un mondo "più dinamico", dice, più stimolante; e forse non sa neppure lui cosa vuol dire. Guarda l'architettura nuova della Milano "rinata" (così sostiene il vicesindaco), senza capire che cos'è bello e che cos'è brutto, cogliendo solo l'energia di un futuro a lui inaccessibile. Lo osservo: è davvero bruttino, si veste anche in modo approssimativo, viaggia con una borsa e un computer, mentre sorride educato scopro che gli manca anche un premolare. Insomma, si capisce che resterà dov'è, immaginando ogni tanto di vivere nelle (brutte) residenze Libeskind, che ammira dal basso di tutto. 

Antonio, l'insegnante vincitore di concorso 
Ha 28 anni, è nato vicino a Palermo. Due lauree, con la lode. Grazie a un punteggio esorbitante, guadagnato con pubblicazioni e supplenze, viene catapultato con un incarico forse annuale in un prestigioso liceo classico di Milano. Nel frattempo, ottiene l'assunzione a tempo indeterminato, in un altro istituto. Accetterà, a fine anno. Per ora si tiene le tre classi in cui insegna italiano e latino. Ha un corpo minuto, un accenno di barba, capelli già in procinto di prendere altre strade. Un accento fortissimo, che accompagna un eloquio gigantesco, a voce bassa; è un piacere ascoltarlo. Persino un accenno di ironia, ma proprio pochissima. Esempio preclaro del bravo giovane studioso, meridionale, che ce l'ha fatta a dispetto di tutto. Trapiantato nella nebbia (non deportato, come si usa dire a sproposito, di questi tempi), non ha perso un minuto di lezione. Con il pulloverino chiaro, la sciarpa già in ottobre, nonostante l'autunno caldo, e il suo aspetto minuto, umile. Troppo umile. Ha il complesso dell'età ("sono giòvane") e della provenienza: ecco perché non ingrana con gli studenti. Durante le sue ore questi beceri mangiano, si truccano, telefonano, parlano, scattano fotografie con il cellulare. Lui li riprende, nell'ostilità e nella derisione generale. "Cerco di portare ordine e per questo sono inviso", dice, con quell'"inviso" che già da solo denuncia il personaggio, che non registra alcuna assunzione di responsabilità. Fino a un mese fa la mamma gli preparava gli arancini, oggi è vittima della crudeltà di sedicenni dai modi animaleschi, che evidentemente non riesce ad appassionare né a intimorire. Vorrebbe essere molto e non è niente, le sue proposte cadono nel vuoto, restano solo i voti spelacchiati e ingiusti che assegna trincerato dietro linee guida ministeriali, che gli consentono di esercitare il riflesso di potere che vorrebbe avere. E intanto il tempo passa e lui cresce.




domenica 15 novembre 2015

Je serai Paris

Ho lasciato drenare il mio dolore e il mio sgomento per qualche ora. Lo sapevo. L'ho vista, fragile, esposta alle sue colpe, che sono anche le nostre. Da due giorni la sogno, bellissima come sempre, accogliente, ricca, sofisticata ma umile, stracciona ma elegante, giovane e vecchissima, immobile e vivace, colta e un po' tarocca, illuminata e un po' sporca, silente e scoppiettante, sfrontata e col cuore in gola. Lì c'è il mio cuore, lì la mia salvezza. Lì c'è la mia cura, lì la colla che ripara la mia anima a brandelli, quando serve. Lì c'è la mia vita immaginata, lì la mia proiezione. E spero ancora, infine, sempre, il mio ultimo futuro.

giovedì 22 ottobre 2015

Grazie dei fior

La prendo alla larga. Qualche anno fa mi sono prestata per fare un'iniezione a una signora anziana che abitava al quinto piano, sopra di me. La vecchia mi stava abbastanza sulle scatole, perché aveva commentato in modo sgradevole un mio recente incidente in moto, a causa del quale mi ero fracassata ("L'ha pagata, eeeehhhh?"). 
All'epoca, comunque, obbedii alla mia regoletta morale, che prevede che l'aiuto, quando c'è di mezzo la salute, non si nega mai.
Nel tempo il caseggiato ha scoperto, immagino con il passaparola, che so fare le iniezioni e, su richiesta, non mi sottraggo. Quindi ogni tanto la signora D., 82 anni con la sciatica ricorrente, di professione governante, mi chiede il favore. Io scendo al primo piano sempre volentieri, magari sbuffo un po', ma poi ci vado. Eseguo l'intervento con tutti i crismi: all'orario che vuole lei, mi lavo le manine nel lavello nell'entrata/cucina, poi ci trasferiamo in salotto, dove la televisione impera a volume altissimo, lei mi porge la scatola di Voltaren (e secondo me abusa: fa malissimo, il Voltaren!), poi mi porge una chiappa, poi spettegola sulle bravate del nostro condomino tossico, poi mi offre un limoncello che io rifiuto, poi mi chiede di tornare l'indomani. 
L'ultima volta ha preparato 10 euro sul tavolo, e io mi sono - ovviamente - indignata:
"Mi offende! Ci mancherebbe! ecc.".

Stasera il marito, panciuto giovanotto che ha già svoltato i 90 ma gira in bicicletta, guida una Panda con cui va e viene dal paesello distante 400 km e cura il giardino ad agosto, sotto il sole, mi ha inseguito per consegnarmi un vaso di ciclamini, bellissimi.
Mi sono sentita in imbarazzo, davvero, e ho ricominciato con la santa storia che la salute non reclama gentilezze, ma esige diritti (mia madre diceva che certi favori è meglio farli che riceverli).
E il vecchissimo, gobbo, impacciato signor M., mi ha risposto: "Lei ha ragione, ma esiste anche la gratitudine".
Ecco, se ne ricordi anche chi ha contato molte meno primavere. Io per prima.


venerdì 2 ottobre 2015

Dal poco al tanto

A volte il cazzeggio sui giornali può avere conseguenze imprevedibili, con un vorticoso svolazzo mentale. Si fa un gran parlare (scrivere) del "lobster roll", il panino all'aragosta "che se non l'hai mai assaggiato sei un pezzente". Io quando sento la parola "aragosta" penso a un articolo sulle lobster-boat, le barche per la pesca alle aragoste del Maine, che pubblicò la rivista di nautica per cui lavoravo tempo fa. Un tuffo nel passato, per intenderci, anche bagnato di nostalgia. Bei tempi... E in seconda battuta mi rifugio nel genio di David Foster Wallace: da "Considera l'aragosta" a "Oblio", da "La scopa del sistema" a "Infinite Jest", a "Una cosa divertente che non farò mai più"... Vabbè, non gliel'ho perdonata, quella di avermi abbandonato. Ma si sapeva...

(ah: ho riletto l'aragosta... piccolo gioiellino filosofico).

martedì 29 settembre 2015

E infine i Camuni

Era dagli anni delle scuole elementari, cioè un'era geologica fa, che avevo voglia di vedere le iscrizioni rupestri della Val Camonica. Si è trattato del riscatto di una gita negata, chissà se per motivi economici (a quei tempi le gite non erano pensabili) o semplicemente per poca ispirazione del corpo insegnante. Sia come sia, l'occhialuta maestra De Chirico con il suo grembiule verde non ci ha portati allora a Capo di Ponte e nemmeno la bassotta professoressa Conte delle medie. Figuriamoci gli spocchiosi professori del liceo, tutti compresi nel loro ruolo di geni sprecati. 
E va bene, ci sono andata, finalmente, better late than never. Il mio lato infantile si è divertito un sacco a fotografare gli omini con il pisello lungo, le donnine con la "coppella",
i cervi-spirito con il palco di corna sovradimensionato, le case disegnate con la doppia prospettiva, in sezione il piano terra e in pianta il tetto... che ridere! 

Sulla gestione del patrimonio culturale di questo Paese, mi astengo: la rabbia è pari alla vergogna, con i turisti stranieri che non capiscono...
Voglio ricordarmi solo del cane e del leone e del guerriero e del carro trainato dai buoi
(o dai cavalli?), con le ruote a raggi. A volte ho la certezza che l'Età del Ferro sia stata migliore della mia. 


Cervo (Divinità)

Guerriero

Labirinto

Oranti

lunedì 21 settembre 2015

À la guerre comme à la guerre

Ieri era domenica e al civico 12 c'era aria di festa. La comunità del primo piano lato strada, presumibilmente del Bangladesh, si è raccolta con amici e parenti sul pianerottolo per mangiare, ridere, chiacchierare e soprattutto cantare. I bambini in cortile, molti ed eleganti, si rincorrevano e giocavano chiassosi, fra un tappeto steso, tricicli appesi al muro, biciclette, sedie, bidoni dell'umido. Niente di strano né di inusuale. Vabbè, alle due del pomeriggio, lo ammetto, tutto questo casino era un oltraggio alla quiete pubblica e io stessa, che per ragioni varie avrei voluto schiacciare un pisolino, ho sbuffato. Tutto lì: un vago fastidio, accentuato dal tepore di fine estate che permette ancora di tenere le finestre aperte... dormicchiare con l'arietta sarebbe stato impagabile. 
Invece il nostro condomino del primo piano ha espresso in altro modo la sua contrarietà. Non si tratta esattamente di un galantuomo: Bruno (nome di fantasia), ha in carniere diversi soggiorni nelle patrie galere per spaccio e reati affini; si dice - ma io ci credo -  che abbia fatto qualcosa di brutto alla sua mamma, santa donna; non lavora da anni; è coperto di debiti; è irascibile e spesso in stato di ebbrezza, a esser buoni. Francamente è uno dei motivi per cui vorrei traslocare. Nella migliore delle ipotesi aggredisce i manutentori dell'ascensore che quindi se ne vanno lasciando il lavoro a metà e cinquanta famiglie, per lo più composte da vecchi, sono costrette ad arrampicarsi a piedi per cinque piani. Oppure sbraita nel cuore della notte, presumibilmente contro creditori o pusher, litiga furiosamente con chiunque, fa il gradasso, estorce denaro, racconta balle, non paga le spese del condominio da anni, insulta telefonicamente l'amministratore quasi ogni giorno. Anni fa, un precedente amministratore, minacciato, si è rifiutato di rinnovare il suo incarico. Insomma, una presenza difficile, con cui anch'io ho avuto un diverbio, a suo tempo.
Ora, Bruno vive in modo conflittuale la vicinanza con la comunità multietnica del portone accanto. Si tratta soprattutto di scaramucce dovute al rumore: spesso i ragazzi esagerano, tamburi fino alle tre del mattino, feste, canti, urla, litigi... non è proprio un'oasi di tranquillità. Allora lui ha escogitato un sistema per combattere ad armi pari, si fa per dire: la musica ad alto volume.
"Vediamo chi si stufa prima", mi ha detto tutto orgoglioso, qualche mese fa. "Non li faccio più dormire!": finestre spalancate, radio o cd a tutta gallara, selezione musicale alla bisogna: Laura Pausini, Renato Zero, Mango, Fiorella Mannoia (per fortuna!), Pooh, Tiromancino (!!!), Tiziano Ferro, Zarrillo (eh...) e via così. Rigorosamente cantanti italiani, meglio se voci femminili (ma allora perché non Mia Martini, o Mina, per dire?), roba da Radio LatteMiele o GammaRadio, ma senza interruzioni o speaker; si viaggia sicuramente oltre i 150 decibel, con effetto rimbombo del cortile.
Allora, a parte che così non dorme più nessuno, tanto meno "noi" del 14, e soprattutto non dormo io, a me sembra che "loro" siano rimasti del tutto indifferenti.
La solfa, è proprio il caso di dire, è continuata fino alle 9 di sera, quando forse le energie di disturbati e disturbatori si erano affievolite fino a scomparire, comprese le mie. Ero ormai decisa a scendere al primo piano e dire stancamante, quasi supplicando: "Bruno, ascoltami: se ne fottono di Marco Mengoni, credimi."
La notte si è salvata, dai tamburi e da Mino Reitano.
Fino alla prossima.

venerdì 11 settembre 2015

La mia riva del fiume

Sulla questione migranti mi astengo dal commentare. Lo fanno già in tanti, in ogni sede (a volte, a mio giudizio, anche troppo: l'eccesso di retorica può portare all'indifferenza o all'insofferenza, che sono due mali terribili).
Se ne sono viste di tutti i colori, e ciascuno ha reagito secondo coscienza, se ce l'ha, e anche senza nessuna coscienza.
Però mi chiedo: quanto dolore, quante umiliazioni, quanta disperazione e quanta impotenza potranno mai ripagare dello sgambetto di una donna a un papà con in un bambino in braccio (anche non siriano/fuggitivo/nero/povero)?
Vorrei trasformarmi in un cinese e aspettare sulla riva del fiume. Perché, signora Petra Laszlo, sa? Basta poco. Pochissimo. Proprio questione di un secondo. E lo sgambetto te lo fa la vita. E allora sono guai. Ne stia certa.

lunedì 7 settembre 2015

Bitmap # Percezione/02

Non ricordare nulla, ricordare qualcosa, ricordare tutto.

Monkey World Ape Rescue Centre, Wareham, Dorset, UK (agosto 2015)

martedì 1 settembre 2015

Il temporale

Quando scoppia il temporale, la sera, a fine estate, dopo tanto caldo, io per quello scorcio di tempo sono calma. Mi sembra che possa lavare tutto, nuvola enorme che inghiotte tutte le mie nuvole piccole e così posso respirare un po'. Poi prevale la paura animale: del lampo che deraglia, del tuono che spezza e persino del buio. Mi prende il batticuore e aspetto che rimanga solo la grande pioggia, che lava tutto, o quasi. E alla fine, se posso, dormo.

giovedì 27 agosto 2015

La verità, vi prego, sulla gioia

No, dico: è chiaro perché non capisco più niente quando le vedo?
La prima è un cucciolo; e anche l'ultima, che dorme, con il muso fuori.
La seconda e la terza sono due amiche.
Io sono la quarta: riconoscibilissima.
Chiedo scusa a tutti, le foto delle vacanze sono un tedio... 










sabato 22 agosto 2015

Screenshot # 09 - Londra puzza

Che bella Londra... Mah, insomma. Londra intanto puzza. Puzzava anni fa e oggi puzza ancora di più: di patatine fritte, di cibo, di piscio, di gas di scarico, di acqua di fiume marcia, di immondizia, di sudore, di metropolitana, di merda di cavallo. Dicono che tutte le città puzzano, più o meno così, ma non è vero. Forse in estate è peggio, non ne dubito.
Poi Londra non è una città. È un intero mondo, in miniatura. E, in quanto tale, trovare il proprio posto è complicato. Scatena una crisi di identità: chi sono, io? Perché per sapere dove collocarsi bisogna sapere bene chi siamo. Andando per negazione, non sono (se mai lo sono stata): giovane, araba, nera, cinese, punk, vecchia, handicappata, senzatetto, miliardaria, studente, mendicante, manager, tossicodipendente, musulmana, guida turistica, poliziotta, teenager, conducente di autobus, nobile, omosessuale, insegnante, borseggiatrice o un'espressione qualsiasi delle migliaia di categorie di persone (categoria, che brutta parola…) che si spostano per le strade di Londra. Nel caos snervante di questa metropoli tutti sono tutti e io non sono nessuno, quindi ho due possibilità: lasciarmi galleggiare per il tempo che ci resto anch’io, oppure andare via.

Rimango, spettatrice aliena, e capisco molto di più di me stessa in tre giorni che in molti anni di vita.

venerdì 14 agosto 2015

Screenshot # 08 - Di traverso

Sono una turista imperfetta, non c'è niente da fare. Scelgo le mete seguendo l'istinto e gli itinerari me li faccio dettare dal meteo o dalla noia o dall'articolo di giornale letto quattro anni fa, e che non mi ricordo neanche bene, o dal documentario su Rai 5 in onda lo scorso febbraio, che infatti parlava di tutt'altro. Così finisce che se piove mi incaponisco e voglio andare a Bath a vedere i bagni romani con l'acqua termale dentro. Ma non basta. Mi sistemo in un campeggio diciamo "basic" (ma dopo l'ultimo, anche il Four Seasons sarebbe una topaia) e poi vado in città in bicicletta, seguendo la ciclabile sulla riva dell'Avon. Il motivo per cui non scrivo i diari di viaggio è questo. Perché quello che osservo nei miei percorsi cosiddetti alternativi non ha nulla di turistico, casomai di antropologico, del genere Ilvo Diamanti dei poveri. Costeggio il fiume insieme a runner solitari, giovani donne con caschetto (presto un amico di Renzi metterà in piedi una fabbrica di caschetti per ciclisti e diventerà obbligatorio anche da noi), un sacco di studenti che vanno non si sa dove, alcuni che si fanno una santa canna, altri che camminano a passo veloce o sfrecciano in bicicletta, molti sono studenti stranieri. Il paesaggio è da realtà postindustriale, vecchie fabbriche semiabbandonate, capannoni, houseboat un po' dimesse, con sdraio accatastate sulla coperta, vasi di coccio con cactus quasi morti o piante di plastica, tendine che lasciano intravedere lavelli in acciaio inox vecchiotti, teiere sui fornelli, signore panciute che preparano la cena. Una periferia sciatta da neorealismo inglese di epoca thatcheriana. Lavoro di fantasia, come sempre, immaginando vite stanche e sempre in bolla, non solo metaforicamente. Lungo i 3 km di ciclabile incontro ben 5 cartelli (e croci e fiori appassiti) in memoria di qualcuno che è finito nel fiume e non l'hanno ripescato in tempo. Cinque solo in quest'anno. Mi chiedo come sia potuto accadere: erano tutti ubriachi? Era buio? Li hanno spinti? Si sono suicidati? Mah... Pedalo con più attenzione, con la pioggerellina solita e un po' più di inquietudine. Mi saluta un pescatore e anche un guidatore di chiatta che si beve una birretta mentre si dirige piano verso ovest, con la sua cerata gialla. Chissà cosa trasporta e dove e perché. Arrivo in città, please dismount (cartello con omino che porta la bici a mano). Risalgo al livello della strada, stazione degli autobus, traffico, semafori, gente di fretta, adolescenti con capelli color fucsia e abbigliamento coordinato alle chiome, turisti (eh... e chi sono io, dopo tutto?), orde informi di persone che si accalcano in direzione delle terme romane, ondeggiano inebetite con cartocci di cibo in mano e macchine fotografiche da fotoreporter e quegli affari lì telescopici per farsi i selfie con il cellulare, in maschia erezione davanti a sé. Mi immetto in questa tangenziale obbligatoria, in fondo sono qui per questo. Tutto il resto è ovvio, non degno di menzione, certamente non qui. Quando alla fine riemergo dal tepore sotterraneo, prima di andar via sento la necessità di un eccesso alimentare e non resisto nemmeno davanti a una minuscola vetrata simbolica color sangue, con il profilo in piombo, lo so io il perché. Il tempo incalza, in ogni senso.

giovedì 13 agosto 2015

Screenshot # 07 - Joan Baez

E quindi basta, devo lasciare quello che vince a mio giudizio il Premio per il Più Bel Campeggio Panoramico del Mondo. A parte che qui in Cornovaglia ogni negozio che vende "pasties", cioè dei fagotti di pasta simil frolla ripieni di carne e altri ingredienti indigeribili, ha montata l'insegna del Miglior Produttore di Cornish Pasties del Mondo. Quindi ognuno si senta libero di assegnare il riconoscimento a quello che vuole, dal Miglior Libro di Poesie alla Migliore Muta da Sub del Mondo.
Sono le nove di sera e attraverso lentamente il prato di due acri (secondo loro sono tutti di due acri, i prati dei camping, e a volte sono due o più campi di due acri, cioè non lo riesco a immaginare, in metri quadrati, quanto misurano), e mentre guardo a ovest, le famose linee verde, blu e azzurra, sento la voce di Joan Baez che arriva da un furgoncino, seguita da un vichingo hippy con i capelli lunghi e grigi. Mi viene incontro, scalzo, ovviamente, mi dà la mano, io ho le lacrime agli occhi. Mi chiede se mi piace, sì, che mi piace, sto piangendo dall'emozione... Mi dice di averla vista al Cambridge Folk Festival due settimane fa e io mi commuovo ancora di più mentre gli racconto del concerto all'Arena di Milano del '70, quando ci sono andata con mio papà. Ho l'ellepì, a casa. Ci mettiamo a parlare della guerra del Vietnam, di Bob Dylan, dei sogni, del tempo, dei nostri itinerari, dell'oceano. Poi il sole diventa rossissimo, mai visto un sole così rosso, e se ne va giù, dietro la mia ultima sera di confine. Saluto il gigante capellone, raccolgo tutti i brandelli del mio cuore sparsi sull'erba, e via. Deep in my heart, I do believe, we shall overcome, some day.

mercoledì 12 agosto 2015

Screenshot # 06 - Seals

Non c'è scritto da nessuna parte, né ufficiale, per esempio in una qualsiasi delle inutili guide turistiche che giustamente non compra piu nessuno (pagine e pagine di Dove dormire e Dove mangiare, consigli di B&B o ristoranti inaccessibili per costi e disponibilità, ma qualcuno lo sa che sono tutte segnalazioni marchettare?), né ufficiosa, come i resoconti di viaggio postati su forum di ogni genere e di ogni attendibilità. Ma io non demordo e quindi appeno stringo amicizia con qualcuno, gliela meno con la storia delle foche: dove posso vederle? E così, con il passaparola, prima o poi ci arrivo. Non è proprio agevole, eh? Prima di tutto bisogna capire cosa dice l'interlocutore, che preso dalla smania di dare informazioni dettagliate, inorgoglito dalla richiesta, si lascia andare a indicazioni stradali assurde, con punti di riferimento ovviamente non interpretabili e tempistiche perlomeno approssimative. Poi c'è la difficoltà della guida a sinistra in passaggi rurali praticamente sterrati o con pendenza al 12%, unica carreggiata larga pochi centimetri più del Ducato. E infine il sentiero costiero, a picco su precipizi spaventosi, da cui sporgersi con binocolo e macchina fotografica con zoom montato che ciondolano nel vuoto... E scrutare. Ma ore e ore di cammino, di vento che sposta anche i sassi, di pioggerellina snervante, generalmente ripagano. Eccola laggiù, la testina nera a forma di L, periscopio lucido e animato: si guarda intorno e poi sparisce. Allora penso di averla sognata, miraggio patetico e infantile. E dopo qualche minuto, la vedo di nuovo. Sembra che mi cerchi, mi canzona, la furbetta. Una giravolta e giù, di nuovo. Allora no, è vero! Ci sono! Avevano ragione il ciccione di Polperro, e il giovanotto che gestiva quel campeggino con lo specchio dei bagni montato in una cornice di legno argentata, e persino la vecchina del Trust che mi voleva offrire il tè mentre mi faceva parcheggiare in verticale sopra Cape Cornwall ('sto viaggio mi ha messo un'ansia...). E anche l'escursionista un po' troppo alla mano che oggi mi ha detto che c'erano i "puppies", o così mi sembrava di aver capito. Mammamia, i piccoli, davvero! Dormivano, uno sulla sabbia di una caletta, gli altri galleggiando in verticale a pelo d'acqua, o sul fianco... Ogni tanto qualcuno si svegliava, guardava in su, e poi scivolava sotto il turchese della baia, e buonanotte. Impalata dall'emozione non volevo più saperne di tornare indietro, piccola foca anch'io, oppure enorne madre dal testone nero, che controlla a distanza il pisolino indolente dei suoi giovani siluri grigi.
Sono a posto, adesso. Dopo questo posso finalmente avviarmi con spirito pacificato nella finzione di re Artù, nella grotta di Merlino, a Wells, a Bath, a Londra, dove volete. Il mio place to be l'ho già trovato: si chiama Godrevy Point, dopo St Ives. Torno, torno. Un giorno torno.

domenica 9 agosto 2015

Screenshot # 05 - Nebbia

La Fine del Mondo, cioè il punto più a ovest della Gran Bretagna, oggi non si vede. Sembra la pianura Padana a novembre, visibilità ridotta a niente. La nebbia è bella compatta, miliardi di miliardi di goccioline, un testo di meteorologia per la quarta elementare; esci e ti bagni i capelli e neanche sai perché. Questo non impedisce a frotte di hippies ardimentosi di percorrere sentieri impervi per raggiungere enormi spiagge e tuffarsi nell'acqua gelida (15° C). Poi risalgono gracchianti, e sostano per ore seminudi a valutare le prestazioni, mentre i più pavidi si tolgono le mute e le sciacquano con la canna. Però questo è un paese di gente sorridente, sempre disposta a scambiare due chiacchiere, a consigliarmi qualcosa che nemmeno capisco ma che farò o vedrò di sicuro. Siamo tutti in vacanza, è vero, ma è confortante ritrovare un po' di umanità, magari proprio in una fattoria sopra Land's End, con le mucche  che muggiscono e dormono e mi guardano un po' tonte, al di là dell'orizzonte opaco.

sabato 8 agosto 2015

Screenshot # 04 - Polperro

Inutile negarlo. Striscia verde chiaro punteggiata di macchioline bianche (pecore), striscia blu scuro (oceano) striscia azzurro chiaro (cielo). Sette di mattina, bevo il caffè davanti a 'sta roba qua, e si spengono tutte le spie del mio cruscotto esistenziale. La signora alle mie spalle legge le favole ai bambini in tenda, perché non disturbino. Un ragazzino volteggia sull'altalena vecchia e cigolante, in questo pezzo di fattoria adibito a camping, sopra Polperro. Piano piano si svegliano tutti. Aspetto.

venerdì 7 agosto 2015

Screenshot # 03 - Tesco

Una delle mie manìe di viaggiatrice è gironzolare nei supermercati all'estero. Prima di tutto perché mi piace scoprire cosa vendono di diverso, confrontare i prezzi con quelli italiani, comprare piccole scemenze introvabili a casa, come quaderni con le righe e i quadretti e i margini strani, robe in polvere da cuocere che poi non userò e quindi scadranno, creme per il viso, dolci extragrassi schifosi, elastici per legare non do che... Mi inchiodo davanti alle salse, cerco la custard (crema pasticcera) nel banco frigo, i gamberetti, il burro con i cristalli di sale, i muffins ai mirtilli, il succo di melagrana, i cerotti (!!), le medicine (!!!). Beh, queste per forza, il paracetamolo costa 70 centesimi di euro (12 pastiglie), ma anche il Voltaren per le botte che prendo perché sono maldestra. Insomma, puttanate varie. E attrezzi per cucinare (fruste, palette, tazzine, ovetti che ti dicono quando sono cotte le uova, sode, alla coque ecc.). Ma l'osservazione antropologica segue quella merceologica: chi sono i clienti? Ed eccoli qua, quelli del Tesco di Dorchester. Famiglie con tre figlioli obesi che comprano decine di pacchetti di patatine, uomini soli già belli pieni con quattro casse di birre nel carrello, magrissime signore anziane che scrutano miopi fra le mille confezioni di tè per cercare quello lì, nero, nelle bustine rotonde, che se ne bevi una tazza non ti addormenti per un anno intero; se l'orario è quello giusto ci sono anche impiegate e impiegati in divisa che afferrano velocemente buste di insalate miste già lavate e tagliate e forse anche masticate e zuppe e cosce di pollo fritte fredde da scaldare nel microonde. E infine loro, tante, troppe: le ragazzine madri. Un'incredibile ma vera puntata di "Sedici anni e incinta". A guardarle bene sono già stanche, basse grasse, ceto bassino, con i capelli colorati, molte con il frugoletto nel carrello e il loro ragazzo accanto, dall'aria imbronciata. Sono giovanissime, sono giovanissimi. Comprano latte in polvere, cibo immangiabile, bibite, maionese, mai frutta e verdura, si spostano veloci nei corridoi, qualcuna sorridente. All'uscita ne incontro una con il passeggino doppio e i gemelli che dormono, lei litiga con il padre che sembra suo figlio, avrà 14 anni. Per un momento penso di essermi sbagliata, sono fratelli, mi dico. Invece no. Si avviano a piedi fuori dal parcheggio, mentre un'altra mammina scarta un lecca lecca al suo affare urlante di poco più di un anno.
E io, che sto lì a preoccuparmi del futuro...

domenica 2 agosto 2015

Screenshot # 02 - Colum

Ci mette venti minuti per spiegarmi (ma anch'io forse sono giù di allenamento con l'inglese) che un ragazzo con un berretto nero, al campetto di basket del campeggio, lo ha offeso. Scatta all'istante la mia indignazione atavica, il dolore mai sopito della discriminazione, la rabbia cieca, l'istinto di protezione e tutte quelle robe lì, che mi serpeggiano in testa da quando ero bambina. Allarghiamo la conversazione, per allentare la tensione, di dove sei? Di un paese impronunciabile (però anche il suo eloquio non è proprio chiarissimo), UK? Yes, Britain, and you? Italy, ma secondo me non lo sa bene dov'è Italy, poi riparte con la storia dell'offesa e gli si annebbia un po' la vista, e scuote  sconsolato la testa di capelli rossi e io mi arrabbio ancora, ma gli dico non pensarci più, è un maleducato, enjoy the evening..., lo abbraccio. E alla fine mi guarda con gli occhioni tristi e mi dice: capisci? mi ha chiesto come ti chiami?, ho risposto Colum e lui mi ha chiamato "scottish", perché Colum è un nome scozzese. Ma io non sono uno scozzese. Mi ha offeso. E arrivano le lacrime.
Ah... Io pensavo che lo avesse deriso perché era down. Il dolore arriva a tutti da strade diverse.

venerdì 31 luglio 2015

Screenshot # 01 - Libertà

Cerco di non pensarci mai. O non di pensarci più. Poi oggi li vedo, sono sette, tutti bellissimi, la vernice impeccabile: azzurro, verdino, crème, bianco... Uno color mattone, sulla fiancata c'è dipinto un muro, da cui sbuca minaccioso un pugno, e la scritta "Freedom" . Già, la mia libertà sognata per tanti anni e poi sostituita da un succedaneo, che nonostante tutto, anche adesso che mi fingo ancora nomade e avventurosa sul mio Ducato dell'età matura, mi manca come un vecchio amante. A bordo dei Volkswagen T1 e T2, anni '70 appena svoltati, con tettuccio in canvas e ruota di scorta appesa al muso, c'erano tanti bei giovanotti e giovanotte (a parte un quarantenne capellone, solo), abbronzati, felici come pasque, piedi nudi fuori dal finestrino, radio a tutta gallara, qualche figlio piccolo, sacchi a pelo schiacciati contro i finestrini. Freedom, appunto.
Thaon les Vosges, Route N57. Li ho superati col cuore rotto e poi incollato.

martedì 14 luglio 2015

Siamo feriti quanto basta

(la grande nostalgia: mi manca Jannacci, spesso...)

https://www.youtube.com/watch?v=0bZguPqe98A


Mario
forse l'unica cosa di buono che tu hai fatto nella vita
Mario
è non avere voluto figli
così non hai fregato il mondo
tra vent'anni chissà in quanti saremo
in quanti rideremo?
ma ci pensi, sul treno
tutti impazziti a chiederci dove andremo?

Mario
ma tu guarda i miliardi che spendono
a togliere i sassi alla luna nel cielo
questi prendono, vanno, tornano
non fanno niente, è solo un volo
noi quaggiù ci sbraniamo, gridiamo ti amo
e chi la sente la povera gente?

Gente
ognuno la pensa in maniera diversa
eh, ognuno ha la sua testa
per lo meno un figlio ti fa compagnia,
ma poi scappa e vola via
poi che c’entra la terra e la luna?
son sempre gli stessi ad avere fortuna

Mario
non ti resta che l'amore
Mario
hai capito la canzone

Mario
io ti vedo passare alle sei di mattina
te e la tua bicicletta
Mario
due speranze nel cuore, un po' di giardino
e un sogno, la tua casetta
alla sera ti fermi nel bar qui vicino
giusto per bere un bicchiere
e nel bianco degli occhi, nel rosso del vino
muoiono le sere

Mario
la domenica arriva sempre in ritardo
pallida e senza fiato
con te spaesato che inciampi negli anni
e anneghi in un quarto di vino
chi lo sa, forse è giusto, forse è un errore
chissà, sarà destino...

Mario
non ti resta che l'amore
Mario
hai capito la canzone

Mario
le slacciavi la gonna, sudavi, ridevi
ti spogliavi sempre in fretta
Mario
le dicevi, ti amo, ti voglio, sei mia
le offrivi la tua sigaretta
ma serviva soltanto per guardarla fumare
per scherzare con l’amore
ti serviva per darti dell’uomo
che spoglia ogni sera una donna diversa

Diversa
ma è anche diversa la sera
che si è regalata la tua donna
una sera più sua
o solo una sera diversa dalla tua
la tua è un ricordo e basta
la sua è un grande buco nero nella tua testa

Mario
non ti resta che cantare
Mario
non c'è più la tua canzone

Mario
ti ho sentito gridare, agitarti, spiegare
ho fatto una nuova scoperta
Mario
dicevi, adesso mi alzo
e vado ad aprire anche l'ultima porta
Ora esco, io provo a sparire
vado a dissolvermi in cometa,
quanto basta per non sentirlo più
il ritmo strano della vita

Mario
io faccio il cantante, è vero
e suono e vesto solo idee
ma lo stesso io dico
dov’è che si cambia sparandosi un colpo qui, in testa?
lascia fare alla vita questa vecchia fatica
siamo feriti quanto basta...

Mario
non ti resta che ascoltare
l'eco che hanno messo nel finale...

venerdì 29 maggio 2015

Il linguaggio del silenzio

Non sono molto portata per le lingue. Eppure mi danno da mangiare, quindi devo chinare la testa e sognare che gli anni che passano non mi tolgano la prontezza e la curiosità per mantenere quelle che parlicchio (o leggicchio). L'interesse ci sarebbe, è proprio l'attitudine che manca. Quattro anni di tedesco mi hanno dato molto sul momento, ma ho assimilato poco e con fatica, innescando per fortuna lo stupore quando un significato galleggia di nuovo nel mio stagno culturale. Mi stizziva attraversare la Germania e non capire cartelli e articoli in vendita nei negozi. Problema quasi risolto; altro è una conversazione poco più che minima con un teutonico. Ma  insomma, non si può avere tutto.
In coda nei miei desideri c'è anche il russo, pensiero fisso che sta lì, da decenni, in attesa di trovare il tempo e il coraggio di apprendere almeno le basi. Quella per la Russia è una passione antica, che pesca fra le memorie di un viaggio in URSS ai tempi del liceo, indimenticabile scoperta di un mondo che non esiste più.
I russi, sì, con tutta "quella roba lì"...

Ma c'è un'altra lingua che vorrei sapere, e bene: quella dei segni. Mi affascina in quanto inaccessibile mezzo di comunicazione, che supera il limite della parola per cogliere l'essenziale, purgato da fronzoli e aggettivi. Sono consapevole che è una ricchezza non voluta di chi non parla e/o non sente, che volentieri rinuncerebbe a quelle smorfie e a quegli arabeschi in aria per poter chiacchierare, urlare, discutere, spiegare o dire soltanto una battuta. Lo so, e non intendo ferire nessuno. Però quando ieri ho visto una coppia di signori in coda in libreria, che "parlavano" di libri nel loro silenzio assoluto, senza essere raggiunti dalla musica ad alto volume, dai capricci di un bambino, dagli squittii di due ragazzine con Henry Potter in mano, dal "bip" del lettore di codice a barre, io li ho invidiati, nella loro purissima comunicazione. Ho immaginato la gioiosa condivisione (e chissà se ho immaginato bene!) per essersi concessi il libro di Zerocalcare e quello di Benni, pregustando la serata sul divano. Poi lui un po' innervosito dall'attesa si è allontanato e ha lasciato lei alla cassa, che con pochi cenni e un grazie stentato, finalmente, ha pagato e ritirato il suo bottino.
E chissà, magari invece spettegolavano sul destinatario del regalo. O si rimbeccavano per un malinteso vecchio di tre giorni, o programmavano il fine settimana. O si raccontavano la giornata. E poi, comunque, erano fatti loro. E io lì, impalata, a fissare le mani che volteggiavano e poi il sorriso di lei, con un piccolo inchino e la mano che saluta.

venerdì 22 maggio 2015

La California quella vera

La mia mamma aveva una Dyane. Verde. Gliel'hanno rubata e lei ne ha comprato un'altra. Arancione. Ho imparato a guidare con il cambio accanto al volante, con i finestrini che si ribaltavano all'esterno, per metà. Oggi, leggendo orearovescio.wordpress.com/2015/05/18/due-cavalli-un-po-bastardi/, mi sono ricordata di un viaggio io e lei, da sole, all'inizio di agosto di tanto tempo fa, lungo l'Aurelia, da Livorno in giù (non esisteva allora la A12...). Papà, i nonni e mia sorella davanti, in una macchina "normale". Noi con calma, a 90 all'ora, macchina carica di masserizie, partite dopo e arrivate con il buio. Sono stati anni terribili, i miei vent'anni, ma ricordo sorridendo Cecina, e La California (ridemmo tanto... "Mamma, andiamo in California!") e poi una deviazione a Bolgheri, i cipressi, Castagneto e Donoratico... piano, in coda, e poi San Vincenzo. Fu quello, forse, il nostro unico viaggio. Venticinque anni dopo, o forse più, il viaggio insieme è stato molto più lungo e l'ultimo. Senza nemmeno la Dyane.

Thank you, David

Vabbè, mi sono riguardata l'ultima puntata di David Letterman e quando ha detto "Thank you and good night" senza sorridere mi si è spezzato un ennesimo, piccolo, sciocco, autentico, curioso, ironico e sconsolato pezzo di cuore.

sabato 16 maggio 2015

La compagnia di Carrère

Ce l'ho fatta. Sono arrivata in fondo. Al "Regno" di Carrère, intendo. Un vero atto di fede,
è il caso di dire. A parte l'argomento Gesù e compagnia di giro, che non mi appassiona
(e questo è un male, denuncia infatti la mia ignoranza o almeno la mia conoscenza approssimativa), ho trovato le oltre 400 pagine un discorso lungo e a volte pedante, ahimè poco organico, ondeggiante fra la demolizione della figura di Paolo e l'interpretazione di quella di Luca, con qualche appassionante incursione storica (che mi avvicinava e incuriosiva) e qualche giustificazione personale (anche).
Ma: se ho resistito, lo devo alla scrittura di Carrère, restituita magnificamente dal traduttore Francesco Bergamasco. E fra molta ridondanza, le ultime venti pagine meritano da sole la fatica. Diciamo che non mi sento mai sola, quando leggo Carrère. Basta e avanza per leggerlo anche nelle notti difficili, quando la luce della coscienza non vuole affievolirsi.

lunedì 11 maggio 2015

Il cucuzzolo della montagna

Al posto di Facebook sul cellulare ho un'app fantastica: si chiama PeakFinder Earth. Per soli 3 euro e 70 (e sembra che Amazon l'abbia anche regalata, una volta!), è possibile segnalare la propria posizione, attivare la bussola (a meno che non ci muova su se stessi come deficienti per capire dove ci si trova) e magicamente appare una linea nera su fondo bianco, semplice semplice, che disegna il profilo di tutte le vette circostanti (si individuano benissimo dalla forma) e il loro nome. Se si tocca la cima, si apre la finestrella con i dati: altitudine, coordinate ecc. Si può usare in tutto il mondo e non serve Internet (basta un cellulare con il GPS). Ma non è una meraviglia? Tipo le mappe di Google, ma per le montagne. C'è anche il sito, volendo: www.peakfinder.org/it 
Mai più senza.

P.S.: le app provate in precedenza non funzionavano mai: finalmente qualche genio ha provveduto.

mercoledì 6 maggio 2015

Il momento del commiato

Argomento difficile, quello dell'addio. Galleggia sulla mia coscienza da un po', mentre con il tempo annovero saluti definitivi a cose, persone, luoghi, idee, sogni, più o meno importanti.
Si comincia da piccoli, piccoli strappi all'abitudine. Basta scuola, basta compagni di banco, basta bicicletta con le ruote, basta fiocco rosa al collo. E poi è una sfilza di interruzioni. Basta amica  F. Basta appartamento di via Poetessa, dove non avevo un metro quadrato tutto mio, ma che è l'unica casa che sogno ancora. Basta tuffi pazzi con i miei cugini, basta isola Palmaria, basta baci strampalati con B., occhi verdi e ignorantotto, che mi spiegava matematica sotto un albero di nespole (basta nespole). Basta liceo, con tutti suoi drammi e le sue notti in piedi a studiare. Basta Venezia, basta primo amore disperato. Basta famiglia. Basta Donegal, scoperta terminata. Basta nonni. Basta correre. Basta moto. Basta tenda. Basta mamma. Ultimi saluti improvvisi e del tutto inconsapevoli a uomini e donne e oggetti che non avrei rivisto mai più: legami sciocchi, legami meno sciocchi, luoghi bellissimi e luoghi bruttissimi, negozi spariti, piscine chiuse, spiagge erose, cinema rasi al suolo, amicizie evaporate, compagni di sventura, scrivanie abbandonate, tutta roba che pensi di rivedere domani o martedì prossimo o l'estate dopo e invece niente. E gli addii quelli voluti, vere e proprie liberazioni. Addio letto d'ospedale n. 12. Addio direttore infame che mi ha dato della scema per quattro anni. Addio parenti serpenti. Addio libri di trigonometria (addio seno e coseno!). Addio impermeabile beige degli inverni tristi. Addio capelli lunghi. Addio zoccoli. Poi ci sono gli addii allo stato delle cose. Quelli sono i più infidi. Percepisci che qualcosa è cambiato per sempre, e spesso in peggio. Avverti la modifica, quella definitiva: la resa. Non scii più. Non lavori più. Non ami più (quella persona, quel posto, quella cosa). E poi non ci pensi più (a quella persona, a quel posto, a quella cosa). Non ci credi più. Un addio a consistenti parti di noi stessi. Soppiantate da nuove facce, nuove guerre, nuove onde, nuove voci, nuovi dolori, nuove letture, nuovi saperi, nuove abitudini, nuove case. E, ancora, nuovi addii, mai ultimi, mai più primi.

venerdì 1 maggio 2015

Piccole storie nobili

Un mese di silenzio. Mi sono astenuta dalla scrittura, non dal pensiero. Nel frattempo fiumi, oceani di parole hanno invaso i social network, su ogni argomento. Dall'immigrazione alla legge elettorale, dalla Resistenza alla Siria, dal Nepal (ora dicono tutti Nepàl) all'Expo. Tutti che vomitano e ripostano e taggano e segnalano miliardi di commenti, un'ingordigia di presenzialismo, un ammasso di opinioni o di informazioni, a volte distorte, che mi hanno stomacato. Me ne sono allontanata, nauseata, chiedendomi cosa potessi mai aggiungere di veramente interessante per questa folla di esternatori, tutti con molto tempo a disposizione, evidentemente.
Forse qualche storia nuova, minima, inutile. L'ho cercata intorno a me e ne ho trovate tante. Piccole fotografie da mondi ben lontani da chi si sbraccia contro Salvini (giustamente) o invoca una solidarietà che forse è stata rasa al suolo da anni di opacità etica.

E così ecco V., che dopo due anni ha trovato un lavoro e piange e ringrazia chi gli ha dato una mano; B., che mi ha guardato con occhi scuri di rimprovero, perché non vado mai a trovarla (http://berelesen.blogspot.it/search/label/dolore), a cui non posso spiegare che non vado a trovare nemmeno me stessa, per lo stesso motivo; L., macellaio al supermercato, che è stato assunto a tempo indeterminato a 22 anni proprio quando è nata la sua bambina e a cui ho augurato un mondo di gioia; G., che invece ha scoperto che il suo bambino ha una malattia brutta-brutta, di quelle che fanno venire i brividi solo a nominarle e non dorme di notte e chissà cosa lo aspetta; E., che rincorre sogni acerbi e non sa bene dove andare, in questo mondo assurdo, con i suoi 15 anni alti e belli e faticosi e incompleti; F., che mi fa dannare, con la sua vecchiaia senza scopo, sempre sul filo di un precipizio, funambolo incerto e stufo della vita, che oscilla pericolosamente, in bilico fra ricordi che sfumano e un domani sempre peggiore.
E mille altre ne avrei. Lo farò, con moderazione. Ho già un elenco pronto di argomenti, che si allunga su un post-it mentale, quando corrispondo con alcune anime belle.

La primavera tarda e lo so già, tra una settimana la temperatura esploderà e inizierò a lamentarmi del caldo. 
Buon Primo Maggio, tutto da riconsiderare. 



venerdì 3 aprile 2015

Dimensione Danza

Il signor Carmelo io me lo ricordo vent'anni fa, quando faceva il muratore. Ne sono proprio sicura. Poi ha aperto un minilaboratorio e adesso è sarto. Ha i modelli appesi al muro e i manichini e l'asse da stiro e il metro sulla spalla. 
Un giorno gli ho chiesto "Ma lei non faceva il muratore?"
"Ma no, io sono sempre stato sarto!", quasi offeso.
Eppure ci giurerei. Lo vedevo sempre tutto sporco di calce e mi domandavo come facesse, così esile, a sollevare un sacco di malta da 50 chili.
Comunque, ora stringe le gonne e accorcia i pantaloni in diretta concorrenza con i cinesi, che dopo i ristoranti (anche suhi e asian e thai e pizzerie), i negozi di parrucchieri, i centri massaggi più o meno terapeutici - e certamente lo sono -, hanno aperto i laboratori di sartoria in tutto il quartiere. E meno male, manna dal cielo, visto che la macchina per cucire di mia mamma, che ho strappato a mia zia con scatto felino, giace inutilizzata per la mia dichiarata incapacità. 
Un pomeriggio della scorsa settimana ho incontrato il signor Carmelo, era sulle spine: aspettava la sua compagna, che era in ritardo. "Di ballo", ha precisato. Sì, perché lui è un ballerino provetto. Balli da sala, direbbe la mia piccola Valentina. Abbiamo scambiato due parole, mi ha mostrato le scarpe (anche  lui!!), mi ha confessato che il tango è troppo impegnativo per la sua schiena (ma non si caricava i sacchi di cemento? ah, forse è per quello...), polca e mazurca e salsa sono più divertenti. 
"Lei balla?"
"No, purtroppo", ho detto.
"Perché?"
"Mah... non so...".
"Provi! Se prova, non smette più".
Per un istante mi sono immaginata, goffa e scoordinata, fra signore e signori in età, in una balera del Gallaratese, o con i gggiovani fighi e in costumi attillati del Centro Dimensione Danza Solaria Ballo Liscio Accademia di Sticazzi...
Poi fortunatamente è arrivata la signora trafelata e cotonata e ritardataria "Eccomi, eccomi..." e si sono incamminati di corsa verso la fermata del metrò. Io ho inforcato la bicicletta, sotto la pioggia, ho sentito il crack del ginocchio, altro che ballare, e via, al lavoro.
Ma non è che mi sto perdendo qualcosa?

sabato 14 marzo 2015

Buddha a domicilio

Al civico 12 è arrivata l'arte. O l'artigianato, diciamo. Una mattina è apparso un Buddha, di creta bianca, appoggiato su un tavolino, a ridosso della ringhiera che custodisce la tromba delle scale. La sera i Buddha erano due. Il giorno dopo tre. Inizialmente ho pensato che il primo fosse lì in deposito, come Il narghilè del dirimpettaio (e il triciclo delle mia amiche marocchine). Poi i Buddha hanno cambiato colore. Rosso e giallo. E poi oro. Finalmente ho visto l'artista, che trascorre ormai tutto il giorno a dipingerli e a modellarne altri, sul tornio. Indossa una tuta protettiva bianca ed è instancabile. Furtivamente ho scattato una foto dalla mio ballatoio, ma ieri mi sono fatta coraggio e sono andata a trovarlo. Gli ho chiesto il permesso di ritrarre le sue opere e lui è entrato in casa e mi ha portato anche un Ganesh, tutto dorato. Lo scultore ha un nome impronunciabile (che non ho neanche capito) e vive insieme ad altri inquilini, tutti dello Sri Lanka. Me ne ha presentati due, con la pretesa di riuscire a comunicare (lui non parla né italiano né inglese), ma non è stato semplice. Hanno tutti un sorriso dolcissimo e i denti smaglianti da pubblicità del dentifricio. Il più anziano mi ha accolto felice con un asciugamano legato intorno alla vita (presumo stesse lavandosi) e mi ha spiegato che l'amico crea e vende Buddha per meditazione (70 euro), a singoli clienti o a negozi. Si è stupito che sapessi il significato di alcune posizioni delle mani del Buddha, mi ha detto "you have great eyes", mi ha mostrato una piccola statuina del Buddha di ottone, davanti alla quale lui medita e ci siamo scambiati dieci minuti di vita, molto a gesti, devo dire. Dieci minuti di grande pace, lì, al terzo piano del "12". Alla fine ci siamo salutati, con un piccolo inchino, a mani giunte. Oggi i Buddha sono sei e Ganesh è tornato dentro, ma io sto meglio.









domenica 8 marzo 2015

Il vecchio che c'è in me


Da lettrice che vuol essere consolata, mi piace identificarmi con un personaggio
(meglio se il protagonista, visto che sono smodatamente egocentrica). E poi mi piace quando una donna scrive da uomo, un uomo scrive da donna, un uomo scrive da bambino e un giovane scrive da vecchio: e ci riescono. E mi piace anche essere capita, nelle mie paturnie.
Allora: a me La tentazione di essere felici di Lorenzo Marone è piaciuto tanto, per tutti questi motivi e anche per molti altri. L’ho scoperto per caso, nonostante l’editore (Longanesi). La storia non è importante, o forse sì. Diciamo che un anziano signore guarda il mondo con disincanto, un po’ scontroso, un po’ ironico, un po’ saccente e in un bagno di onestà. La vita, con tutte le sue cosette, quelle lì, i cui spigoli dolgono quando l’anima si muove, anche impercettibilmente. Chiamiamoli errori, chiamiamoli destino. Il finale è stilisticamente e strutturalmente perfetto, oltre che poetico.

(Ah, sul suo sito c’è scritto che vuole fare un Coast to Coast con un vecchio furgone Volkswagen. L’ho letto dopo il libro, e forse è per questo che mi è piaciuto. Ha scavato nel mio passato senza dirmelo).