Sono una turista imperfetta, non c'è niente da fare. Scelgo le mete seguendo l'istinto e gli itinerari me li faccio dettare dal meteo o dalla noia o dall'articolo di giornale letto quattro anni fa, e che non mi ricordo neanche bene, o dal documentario su Rai 5 in onda lo scorso febbraio, che infatti parlava di tutt'altro. Così finisce che se piove mi incaponisco e voglio andare a Bath a vedere i bagni romani con l'acqua termale dentro. Ma non basta. Mi sistemo in un campeggio diciamo "basic" (ma dopo l'ultimo, anche il Four Seasons sarebbe una topaia) e poi vado in città in bicicletta, seguendo la ciclabile sulla riva dell'Avon. Il motivo per cui non scrivo i diari di viaggio è questo. Perché quello che osservo nei miei percorsi cosiddetti alternativi non ha nulla di turistico, casomai di antropologico, del genere Ilvo Diamanti dei poveri. Costeggio il fiume insieme a runner solitari, giovani donne con caschetto (presto un amico di Renzi metterà in piedi una fabbrica di caschetti per ciclisti e diventerà obbligatorio anche da noi), un sacco di studenti che vanno non si sa dove, alcuni che si fanno una santa canna, altri che camminano a passo veloce o sfrecciano in bicicletta, molti sono studenti stranieri. Il paesaggio è da realtà postindustriale, vecchie fabbriche semiabbandonate, capannoni, houseboat un po' dimesse, con sdraio accatastate sulla coperta, vasi di coccio con cactus quasi morti o piante di plastica, tendine che lasciano intravedere lavelli in acciaio inox vecchiotti, teiere sui fornelli, signore panciute che preparano la cena. Una periferia sciatta da neorealismo inglese di epoca thatcheriana. Lavoro di fantasia, come sempre, immaginando vite stanche e sempre in bolla, non solo metaforicamente. Lungo i 3 km di ciclabile incontro ben 5 cartelli (e croci e fiori appassiti) in memoria di qualcuno che è finito nel fiume e non l'hanno ripescato in tempo. Cinque solo in quest'anno. Mi chiedo come sia potuto accadere: erano tutti ubriachi? Era buio? Li hanno spinti? Si sono suicidati? Mah... Pedalo con più attenzione, con la pioggerellina solita e un po' più di inquietudine. Mi saluta un pescatore e anche un guidatore di chiatta che si beve una birretta mentre si dirige piano verso ovest, con la sua cerata gialla. Chissà cosa trasporta e dove e perché. Arrivo in città, please dismount (cartello con omino che porta la bici a mano). Risalgo al livello della strada, stazione degli autobus, traffico, semafori, gente di fretta, adolescenti con capelli color fucsia e abbigliamento coordinato alle chiome, turisti (eh... e chi sono io, dopo tutto?), orde informi di persone che si accalcano in direzione delle terme romane, ondeggiano inebetite con cartocci di cibo in mano e macchine fotografiche da fotoreporter e quegli affari lì telescopici per farsi i selfie con il cellulare, in maschia erezione davanti a sé. Mi immetto in questa tangenziale obbligatoria, in fondo sono qui per questo. Tutto il resto è ovvio, non degno di menzione, certamente non qui. Quando alla fine riemergo dal tepore sotterraneo, prima di andar via sento la necessità di un eccesso alimentare e non resisto nemmeno davanti a una minuscola vetrata simbolica color sangue, con il profilo in piombo, lo so io il perché. Il tempo incalza, in ogni senso.
ma per me turismo deve essere questo, intendo la pedalata antropologica in cui lavori di osservazione e fantasia.
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Allora mi capisci! Che bello, viaggiare. Un privilegio enorme, di cui sono grata alla vita. B.
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