Da anni in estate la Rai trasmette un telefilm per bambini (più o meno) che ha per protagonista una foca. E io con le foche ho un rapporto particolare e quindi spesso mi incollo alla tv. La trama delle puntate è inverosimile, si tratta di piccole indagini per minicrimini alla cui soluzione partecipa la foca, che si chiama Robbie.
Il tutto si svolge sull'isola di Rügen, sul Baltico, in quella che un tempo era la DDR; oggi è una ridente località di villeggiatura tedesca. Ridente, si fa per dire: in 8 anni di telefilm non ho mai visto il cielo azzurro, nemmeno a sprazzi, ma sempre bianco, lattiginosamente uniforme; l'acqua del mare è grigiastra, dovrebbero esserci delle scogliere e un faro. Non si vede mai (eh, direi!) nemmeno Prora, raccapricciante albergo sulla costa costruito dai nazisti negli Anni '30, un edificio inquietante lungo chilometri e alto sei piani, poi trasformato in caserma ai tempi dalla Stasi e adesso pietrificato lì, in attesa da decenni di una riqualificazione.
Ogni tanto qualcuno dei protagonisti fa riferimento a Kap Arkona, che si protende nel Baltico, come fosse un luogo magico.
Insomma, cosa mi attrae? E chi lo sa, non c'è nemmeno la foca, perché non ci sono le foche, a Rügen. E però io ci voglio andare e domani parto. Mi sono inventata un giro ragionevolmente accettabile, come Dresda, Berlino, Lubecca, Amburgo... Tutte robe che giustifichino la deviazione capricciosa, un itinerario a metà fra lo storico e l'architettonico e il fotografico e il culturale, e c'ho messo dentro anche Friedrich, che quelle "bianche scogliere" le ha dipinte (quindi forse esistono). Vado a vedere.
Bicocca
domenica 31 luglio 2016
mercoledì 27 luglio 2016
Il vuoto
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
...
E. M.
(Questo è per te, lettrice che sai... scronf)
giovedì 14 luglio 2016
Basta la salute
Ci sono a volte incredibili giornate di sole e di cielo. Allora certi abbracci pungono ancora
di più. Non c'è nulla di irreparabile, lo sappiamo già tutti. Salvo rari casi, perdere il lavoro non è una malattia. Una prova, quello sì: di resilienza, di coraggio, di reazione.
Quasi tutti ce la facciamo e ce l'abbiamo fatta, anche quando sapevamo che ben che vada si peggiora (e non poco). Quindi se oggi io e L. ci siamo abbracciati, proprio come dieci anni fa, di questi tempi, non devo (non dobbiamo entrambi) sentirci persi, perché non ci siamo persi in dieci anni e non ci perderemo mai. Funziona così. Cambieremo di nuovo le nostre abitudini, ma che importa? Mangeremo sempre quel panino ridanciano, lo raggiungerò all'una in qualche angolo della città. Questo è la solfa che mi canto attraversando il parco in bici, lentamente, con quell'azzurro beffardo sopra di me. E che sarà mai? Ci vediamo a settembre, certo. Troverà una soluzione come tutti e nel frattempo stasera guardo il dvd che mi ha messo nella borsa, sguardo basso, bassissimo ("Alla ricerca di Vivian Maier", di J. Mallof e C. Siskel).
di più. Non c'è nulla di irreparabile, lo sappiamo già tutti. Salvo rari casi, perdere il lavoro non è una malattia. Una prova, quello sì: di resilienza, di coraggio, di reazione.
Quasi tutti ce la facciamo e ce l'abbiamo fatta, anche quando sapevamo che ben che vada si peggiora (e non poco). Quindi se oggi io e L. ci siamo abbracciati, proprio come dieci anni fa, di questi tempi, non devo (non dobbiamo entrambi) sentirci persi, perché non ci siamo persi in dieci anni e non ci perderemo mai. Funziona così. Cambieremo di nuovo le nostre abitudini, ma che importa? Mangeremo sempre quel panino ridanciano, lo raggiungerò all'una in qualche angolo della città. Questo è la solfa che mi canto attraversando il parco in bici, lentamente, con quell'azzurro beffardo sopra di me. E che sarà mai? Ci vediamo a settembre, certo. Troverà una soluzione come tutti e nel frattempo stasera guardo il dvd che mi ha messo nella borsa, sguardo basso, bassissimo ("Alla ricerca di Vivian Maier", di J. Mallof e C. Siskel).
domenica 10 luglio 2016
Cuore freddo
Itinerario interessante fra morte e rinascita. Ho lasciato decantare "Riparare i viventi" per un anno, perché sono sempre sospettosa di fronte a successi editoriali con relative celebrazioni in ogni dove. Partendo dalla forma, la scrittura è epica, magnifica ma con uno stile fin troppo articolato, con riferimenti un po' esagerati da cogliere, soprattutto se si legge nottetempo o nelle attese della quotidianità. Poi a me personalmente piace la precisione nella narrazione, quindi niente da dire sulla perfetta aderenza del racconto al tecnicismo medico, da trattato di anatomia. Alla McEwan, per capirsi. L'autrice avrà chiesto una rilettura a un chirurgo e ha fatto bene, un certo distacco aiuta. Certo, un bell'esercizio, ma secondo me leggermente fuori contesto. Cioè, quando spieghi a una madre che suo figlio è morto, forse un livello più piano non nuoce. Detto questo, è bella l'idea di riassumere la vita di ogni personaggio che entra nella storia, sottraendolo così al ruolo funzionale per aprire altre storie dentro la storia, tra l'altro umanissime.
Ma: poi le devi chiudere, 'ste storie! Mi chiedo ancora come sia finita la vicenda sentimentale dell'infermiera o a chi siano stati impiantati i reni (e le chirurghe alsaziane?).
Insomma, visto che non si poteva menarla troppo lunga (per ovvie ragioni), a un certo punto Maylis de Kerangal ha sterzato e via, tutti a casa. E pazienza se manca qualche pezzo.
Romanzo corale, che abbraccia una storia di eccezionale normalità, solleva dal lutto per rigenerare speranza. Salvare il cuore, per salvare tutti. Riparare, questo, non lo so.
Ma: poi le devi chiudere, 'ste storie! Mi chiedo ancora come sia finita la vicenda sentimentale dell'infermiera o a chi siano stati impiantati i reni (e le chirurghe alsaziane?).
Insomma, visto che non si poteva menarla troppo lunga (per ovvie ragioni), a un certo punto Maylis de Kerangal ha sterzato e via, tutti a casa. E pazienza se manca qualche pezzo.
Romanzo corale, che abbraccia una storia di eccezionale normalità, solleva dal lutto per rigenerare speranza. Salvare il cuore, per salvare tutti. Riparare, questo, non lo so.
giovedì 7 luglio 2016
Rette parallele
Davanti all'Itis Galileo Galilei (così il titolo enorme sulla facciata) i ragazzi sono appollaiati sugli scalini, con le facce un po' nervose. Chi rilegge una pila di fogli, chi fuma, chi chatta freneticamente la sua ansia e la sua stanchezza.
Alla fermata dell'autobus di fronte, una coppia bianchiccia ed entusiasta, zainetto in spalla, chiacchiera a voce alta: ridono, i due, si abbracciano, si raccontano.
È finita, sì. La vita abissale si spalanca davanti a loro sul quel marciapiede e li inghiotte mentre scoppiano di felicità o forse solo di sollievo e chissà che cosa sperano o che cosa sanno o che cosa vogliono. Magari solo un pezzo di pizza e una dormita infinita. Un passo a due, un po' di fantasia. Dietro l'angolo, oltre la cancellata, c'è il giardino di un altro istituto, che confina con il Galilei. Altre facce, ma un po' storte, un po' deformi, molte assenti. Occhi annacquati, denti marci, mani grosse. Sono ragazzi anche loro, che non saranno mai maturi, né elettrotecnici, né ottici, né grafici, né al Galilei né altrove. Sono lì, seduti sulle sedie a rotelle o sulle panchine nella penombra, con altri giovani accompagnatori (anche loro con il cellulare e la sigaretta fra le dita). Aspettano non si sa cosa, forse solo un filo d'aria, prima di tornarsene dentro il cratere anonimo e ignorato della loro diversità. Rette che non si incontreranno mai. Vado oltre, perché attraverso ci sono già passata. E penso per un secondo alla mia maturità, gonnellina a righe, maglietta bianca, orologio prestato. La mamma, lì fuori, che mi aspettava, nascosta, quasi glielo dovessi, tutto.
Alla fermata dell'autobus di fronte, una coppia bianchiccia ed entusiasta, zainetto in spalla, chiacchiera a voce alta: ridono, i due, si abbracciano, si raccontano.
È finita, sì. La vita abissale si spalanca davanti a loro sul quel marciapiede e li inghiotte mentre scoppiano di felicità o forse solo di sollievo e chissà che cosa sperano o che cosa sanno o che cosa vogliono. Magari solo un pezzo di pizza e una dormita infinita. Un passo a due, un po' di fantasia. Dietro l'angolo, oltre la cancellata, c'è il giardino di un altro istituto, che confina con il Galilei. Altre facce, ma un po' storte, un po' deformi, molte assenti. Occhi annacquati, denti marci, mani grosse. Sono ragazzi anche loro, che non saranno mai maturi, né elettrotecnici, né ottici, né grafici, né al Galilei né altrove. Sono lì, seduti sulle sedie a rotelle o sulle panchine nella penombra, con altri giovani accompagnatori (anche loro con il cellulare e la sigaretta fra le dita). Aspettano non si sa cosa, forse solo un filo d'aria, prima di tornarsene dentro il cratere anonimo e ignorato della loro diversità. Rette che non si incontreranno mai. Vado oltre, perché attraverso ci sono già passata. E penso per un secondo alla mia maturità, gonnellina a righe, maglietta bianca, orologio prestato. La mamma, lì fuori, che mi aspettava, nascosta, quasi glielo dovessi, tutto.
lunedì 4 luglio 2016
Pet therapy
Si chiama Tito e abita sulle Alpi, in un paesino a quasi 2000 metri. Ostinatamente
ha prevaricato la mia legittima avversità al mondo animale. Con un salto perentorio
e ovviamente felpato, si è acciambellato sulle mie gambe, senza chiedermi se fossi d'accordo. E non lo ero. Ha provato a dimostrarmi che ho bisogno di arrendermi.
Ma che ne sai, tu gatto? Che ne sai del mio motore acceso, che ne sai tu che
non mi metto mai in off position, che ne sai di me, stupido gatto coccolone?
Dopo mezz'ora di abbandono e di richieste, si è addormentato e io non ho avuto il cuore di farlo scendere. Ho sprofondato le dita nella sua pelliccia di montagna, ho ascoltato il suo respiro e un po', ma poco, ho allineato il mio. Passerà un secolo prima che accetti di nuovo un'imposizione simile.
ha prevaricato la mia legittima avversità al mondo animale. Con un salto perentorio
e ovviamente felpato, si è acciambellato sulle mie gambe, senza chiedermi se fossi d'accordo. E non lo ero. Ha provato a dimostrarmi che ho bisogno di arrendermi.
Ma che ne sai, tu gatto? Che ne sai del mio motore acceso, che ne sai tu che
non mi metto mai in off position, che ne sai di me, stupido gatto coccolone?
Dopo mezz'ora di abbandono e di richieste, si è addormentato e io non ho avuto il cuore di farlo scendere. Ho sprofondato le dita nella sua pelliccia di montagna, ho ascoltato il suo respiro e un po', ma poco, ho allineato il mio. Passerà un secolo prima che accetti di nuovo un'imposizione simile.
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