Bicocca

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Fausto Melotti, La sequenza, Milano

lunedì 5 gennaio 2015

La colla di Parigi

Non sono in vacanza. Sto incollando i miei pezzi.

Una signora legge in metropolitana, seduta di fronte a me, "La philosophie dans le boudoir". Io avevo 18 anni quando l'ho letto e forse ha ragione lei, serve la maturità per apprezzarlo.

Le tre vie sotto casa sono una riproduzione in miniatura di Shanghai. Nessun occidentale, a parte me, che scendo il giorno di Natale a comprare il detersivo per i piatti. Mi viene la fregola del bok choy, poi mi passa, non ho l'olio per cuocere. Nel supermercato, con piano interrato, non c'è un solo articolo il cui nome sia scritto con le lettere dell'alfabeto. Gironzolo incuriosita, poi uno di loro mi spinge alla cassa. Ha le borse piene di alimentari sconosciuti. Io mi concedo un'enorme tolla di litchi sciroppati.

Al Beaubourg ci sono quattro mostre da vedere: Duchamp, i palloncini di Jeff Koons, Delaunay, Frank Gehry. Mi ci chiudo un pomeriggio. Qui l'arte è davvero accessibile: si può toccare (quasi sempre), fotografare (sempre), sentire, vivere, anche quando non la capisci. Salgo sulla terrazza mentre il sole scende oltre il profilo della mia gioia.

Lo zucchero filato rosa più gigantesco e più buono del mondo lo vendono due vecchi molto lerci (marito e moglie), in prossimità di Place de la Concorde. I ricchi e i turisti si fanno fottere dalle bancarelle più avanti, sugli Champs Elysées. Meglio.

Sabato mi impunto e vado all'As du Fallafel, che ovviamente è chiuso per shabbat. Ripiego su Hannah, crumiri o blasfemi, il fallafel è buono uguale e mi ci ingozzo. Così dopo due giorni ce l'ho ancora lì. Ma perché...?
Tra l'altro, chi ha deciso che il mercato di Richard Lenoir questa settimana non si tiene? Ma sono pazzi! 

Con il buio pago l'esorbitante cifra di 15 euro per entrare al Grand Palais, dove hanno allestito la "patinoire plus grande du monde". I pattini sono inclusi nel biglietto, ma ovviamente non ci penso neanche. Mi lascio impressionare dalle luci psichedeliche, dalla musica, dalle centinaia di pattinatori, dalle volte con le vetrate, dallo spazio immenso che sovrasta la pista di ghiaccio. Sono tutti eccitati, e anch'io, lo ammetto. Maledetto ginocchio.

Domenica sera vado a mangiare le mie sante cozze da Léon, ché la domenica sono "a volonté". Infatti esagero, oltre ogni limite di decenza. Cozze cozze cozze cozze cozze... patatine patatine patatine patatine patatine... 
Tornando a casa, in Square du Temple, due clochard, di quelli veri, mangiano, bevono (molto) e ridono dentro la loro tenda montata sopra la grata della metropolitana, al caldo, si fa per dire. Se non fosse eticamente inammissibile, direi che li invidio.

Ho la netta percezione che in un anno sono invecchiata di dieci, più dei cani. 
- Per girare le ghiere della macchina fotografica devo togliere gli occhiali da miope che devo rimettere subito per inquadrare e scattare, con l'aiutino della regolazione diottrica.
- Il ginocchio a cui ho tolto il menisco ormai non regge più: zoppico vistosamente e le infiltrazioni di acido ialuronico non le posso più fare a causa di un'altra disgrazia. Le scale della metrò sono state una mazzata.
- Mi stanco subito.
- Ho mal di schiena: questo è il peso e non l'età. Porca puttana.
- Ho sempre freddo. Sarà il vento.

La musica è di tutti. Lo pensa anche un pianista di straordinario talento che ha fissato due ruote di una carriola al retro del piano e se lo porta in giro. Suona dannatamente bene, davanti all'uscita delle Galéries Lafayette, fra folle di persone incuranti, poliziotti che dirigono il traffico fischiando come ossessi, qualcuno che si ferma e gli compra il cd. Sorride con una gratitudine sorpresa e mi chiedo: ma è giusto che questo si esibisca sul marciapiede e non in un teatro? Chissà cosa ne pensa. Probabilmente la musica nutre a sufficienza il suo io, non serve altra platea. Mi vergogno del mio pensiero meschino. 

Linda è una cagna orribile, grassa e flaccida, a metà fra un boxer e un carlino, sbava, ha gli occhi grandi, lucidi e buoni, la pelle del muso rosa. Il suo padrone lancia il pane ai gabbiani che svolazzano schifosi sul Canal Saint-Martin. Mi fermo a chiacchierare con lui, che ovviamente assomiglia alla sua cagna buona. Ascolto insieme a lui la mia calma, che da quando sono qui ha soppiantato i cattivi pensieri. Stiamo bene, noi due, guardiamo l'acqua torbida. Salgo sul ponte a fotografare la chiusa, poi scendo, Linda trotterella storta e solleva gli occhi verso i miei; lui se ne va, salut.  

Scendendo da Buttes-Chaumont incrocio rue de Belleville, dove la vita fila veloce. Passeggini, carrelli, borse della spesa, ragazzi, uomini con la tracolla e la giacca aperta, macellai arabi, negozi di frutta e verdura con le zucche e la frutta un po' troppo matura, tutta gente di colore e per lo più povera. La scuola è chiusa, compro il pane, mi siedo su un gradino di un negozio, guardo tutta questa normalità colorata senza visitatori alieni; sono indecisa se vorrei comprarla qui, la casa, o giù, intorno a rue Mouffetard, dove ci sono botteghe che vendono anche le ostriche (che non mangio), perché la gente sta meglio, lì. 
Infatti, guardo i cartelli esposti dalle agenzie immobiliari. Ci sto pensando davvero.

Porto il mio piccolo segreto dentro a Notre-Dame. Ognuno ha il suo.
E molte altre cose.
Fuori c'è vento. Un vento forte, da Ovest. Il mio vento.
Finisce questo tempo, e anche la colla. Ma sto meglio. 
Qui sto sempre meglio.










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