La tentazione è tuttavia molto forte, c'è della morbosità: che faccia ha Carrère? come sorride (se sorride) McEwan? quanto è stronzo (se lo è) Carofiglio? Foster Wallace ce lo ricordiamo?
Le parole che ci confortano e che ci comprendono, ci esaltano, ci fanno ridere o piangere, corrispondono alle qualità della persona che le ha scritte? E poi, tutte 'ste marchette in televisione o nelle Feltrinelli di turno, cosa c'entrano con la scrittura?
Ieri, dopo aver letto una cosa, ho scritto a una persona: "Mai letto niente di Paolo Nori?" (secondo me potrebbe scivolargli dentro). Risposta: "Mi è sempre sembrato antipatico". E in effetti, Nori non ispira simpatia. Semmai empatia. Ecco, io quando leggo Nori mi sento travolta dalla sua amarezza e dal suo disincanto, espresso con quel modo lì, quello stile che esonda sempre, una scrittura incontenuta, una massa di idee che passano attraverso il colino delle regole sintattiche, inarrestabili. Insomma, se non disturba, il suo flusso di pensieri è avvolgente, penetrante. Per me è consolatorio, nella sua profonda tristezza.
A suo tempo me l'ha consigliato la mia amica C. cui sono grata, oltre che per milioni di altre cose, anche per questo. Di lui ho letto:
Bassotuba non c’è
Si chiama Francesca, questo romanzo
Grandi ustionati
Pancetta
Noi la farem vendetta
La vergogna delle scarpe nuove
Mi compro una Gilera
La banda del formaggio (quello che stavo leggendo ieri...)
E poi ora è uscito quello nuovo, Siamo buoni se siamo buoni.
Che è lì, che mi aspetta. Il libro, intendo, perché lui, Nori, non lo voglio né vedere né sentire.